Io ho la fortuna di non soffrire la fame né il freddo. Ho acqua da bere e medicine per curarmi. Ho una casa dove posso stare al caldo e proteggermi. Ho una famiglia che mi aiuta e non rischio di morire solo. Ho dei nipoti che mi rallegrano la vita. Posso comprarmi i libri che mi piacciono e scrivere delle cose che mi stanno più a cuore. Di cosa potrei lamentarmi?
Forse dell’ingiustizia che ho subito sul lavoro, del fatto che, alla mia età, sono diventato uno scarto. Ma, dentro tutto questo mio perimetro vitale, specie nel mio paese, io mi sento un povero senza niente. Un escluso, un prigioniero, un alcolista, un moribondo, uno scartato, uno odiato, un emarginato. Dentro di me passano i miasmi dell’indifferenza. Covano i pregiudizi, maturati più per delegittimarmi che per comprendermi.
Forse è per tutto questo che riesco, a differenza di tanti, a mettermi nei panni degli altri, quando mi tendono la mano per chiedere aiuto. Non li giudico, né costruisco pregiudizi prefabbricati per ignorarli. Non cerco scuse per non toccare quelle mani tese, per non abbassarmi al livello della strada e guardarli negli occhi, senza superiorità.
Io sono povero come loro. Il mio cuore è fatto della loro stessa carne. È lo stesso cuore, che pompa nel corpo lo stesso sangue. La mia forza non risiede nell’intelligenza, nella cultura, né in quel poco di sapere che ho acquisito negli anni e che, a volte, qualcuno mi riconosce. La mia unica forza è sentirmi uno di loro. E in questo mondo, la mia forza, agli occhi degli altri, è vista come una debolezza.
Santa Teresa di Calcutta diceva:
“I poveri sono assetati di acqua, ma anche di pace, di verità e di giustizia.”
Il declino
Negli ultimi anni il mio paese è diventato un covo di furbi, un luogo dove ci si mette uno contro l’altro. Generazioni dopo generazioni, non si tramandano più i valori che un tempo rendevano unico questo posto.
Il ricordo mi riporta alla “fagiolata”, una festa goliardica che, ripensandola oggi, mi sembra essere stata la più alta iniziativa culturale. Non solo perché creava comunità e divertimento, ma anche perché offriva riflessione sociale. La “castagnata”, anch’essa importante, aveva lo scopo di valorizzare il nostro territorio. Oggi, però, non si scrivono più giornalini, né si organizzano iniziative solidali.
Il “Gruppo Solidarietà” di un tempo, la “Brigata per la partecipazione e la solidarietà”, è stato superato dai cosiddetti “giovani dei giardini”: un’associazione fittizia, priva di significato, che serve solo a fare da spalla a un’amministrazione inconcludente, riempiendo di vuoto le feste comandate. E pensare che uno di questi giovani lo volevo far diventare sindaco del mio paese.
Ma sappiamo tutti com’è andata. Dopo lo scioglimento del comune, per i fatti che conosciamo, volevo costruire una lista di Pacificazione, perché sapevo che l’unico modo per risorgere dalle ceneri era creare una comunità solidale e partecipata. Ma, mio malgrado, avevo la serpe in seno e non me ne sono accorto.
Le dimissioni dell’ex vicesindaca e di una delle consigliere sono la prova provata che il fine ultimo di questi personaggi, usati dalle loro famiglie per assaltare il fortino del comune, non era il bene del paese, ma il proprio interesse personale. Provo dispiacere per Concetta Deodato, ma nessuna riserva per l’ex vicesindaca, un’analfabeta politica usata per distruggere ciò che per anni avevo cercato di costruire.
Un paese che si consuma
Cenadi ormai è una comunità da spolpare fino all’osso. Una masnada di piccoli borghesucci gonfiati solo d’aria. Mi viene in mente il libro di Carlo Levi, “Cristo si è fermato a Eboli”, dove la contrapposizione tra contadini, borghesi e “medicucci” dentro una cultura fascista dettava le regole della convivenza.
Ieri, come oggi, il corpo sociale che viene penalizzato di più è quello dei poveri, di coloro che non hanno protezione sociale. Se ieri i contadini venivano arruolati per la guerra, oggi i poveri sono usati per mantenere il potere nelle varie istanze politiche e istituzionali.
Cenadi è una comunità dove chi si definisce cristiano si azzanna con il prossimo. A questi ultimi consiglierei di leggere il bel libro di Alessandro Sortino, “Il Dio nuovo”, che, partendo dalle figure di San Pietro e San Paolo, mostra come i primi cristiani vivevano a Roma. È un viaggio nella storia che, più che una semplice lettura, si presenta come un pellegrinaggio: ti fa immergere nella storia di una comunità che, per molti versi, oggi sembra scomparsa nei cristiani di oggi.
A Cenadi si sopravvive dentro uno spopolamento che è diventato il vero problema di tutto, e non si fa nulla per contrastarlo. Anzi, si alimenta.
Le guerre sono lontane da noi, ma i bambini che muoiono sotto le bombe o quelli sfruttati da un sistema economico predatorio diventano anch’essi prodotti di consumo mediatico. E come le serie televisive, anziché scuotere le coscienze le anestetizzano.
Non siamo stati capaci, in questi anni, di ospitare una sola famiglia in fuga dalla guerra o dalla povertà. Non abbiamo costruito, insieme ad altre realtà solidali, una cultura dell’accoglienza. Però siamo bravi a vestirci da Babbo Natale, a riaprire, per qualche giorno la sua casa e a regalare ai nostri bambini – già pieni di tutto – altri regali inutili.
Abbiamo decine di case con la scritta “Vendesi”, che potrebbero essere incluse in un progetto di accoglienza e riempirsi di vita. Ma preferiamo aspettare un acquirente che non arriverà mai.
Il mio paese sta morendo, e noi aspettiamo soltanto il giorno in cui potremo celebrarne il funerale.