“Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni” Papa Francesco.
Se a Cenadi, e non solo, ci vedessimo come creature e non semplicemente come uomini e donne, forse ci sarebbe un rispetto reciproco per ogni essere umano. Invece siamo imprigionati nei giudizi, dentro pregiudizi che saltano di bocca in bocca e diventano zizzania quotidiana.
Non distinguiamo il piano umano da quello politico, la lotta sociale dalle offese sul piano personale.
A volte ci fa comodo mischiare tutto: basta una critica politica un po’ più severa, una vignetta ironica — basta questo — per toglierci il saluto.
Basterebbe rispettarci come creature, perché questo siamo agli occhi di Dio.
Quando di notte osserviamo il cielo stellato, oppure un piccolo gatto che ci spunta all’improvviso, o gli uccelli che volano in cielo, non ci domandiamo da dove vengano o perché esistano.
Ammiriamo la loro semplicità, o anche la loro maestosità. Non diamo giudizi morali, né troviamo nella loro storia un seme di male: ci piacciono e basta. Ci offrono, ai nostri occhi, a volte tenerezza, a volte bellezza, altre volte sublime incanto. E questo ci basta per apprezzarli.
Forse dovremmo fare la stessa cosa con tutte le creature: uomini, donne, bambini, anziani.
Nel nostro sguardo, a volte, si insinua il giudizio severo sulla storia personale di ciascuno, e nel tempo passato di ognuno di noi rovistiamo ciò che ci differenzia. Non pensiamo all’altro come a una creatura voluta da Dio. Ognuno di noi, anche l’uomo più orribile, ha una sua importanza davanti a Dio. Per Dio, anche la nostra storia personale è importante. A Lui solo è consentito giudicarla, perché ognuno di noi vive — e ha vissuto — alti e bassi, meschinità e benigni propositi di bene. Ma l’uomo non guarda l’altro con gli occhi di Dio: proietta sé stesso e, da sé stesso, giudica l’altro.
Questo non significa che dobbiamo restare indifferenti alle malefatte. Non significa che dobbiamo cancellare completamente la nostra storia o quella degli altri. Dovremmo certo ricordarla, ma rimanere sempre a un passo dal giudizio, perché nessuno, in verità, conosce le vicissitudini di vita degli altri. Non conosce il dolore che hanno vissuto, né le difficoltà incontrate nella vita. Non conosce l’amore che hanno provato, né il pianto che hanno versato. E qualsiasi giudizio che possiamo esprimere sarà sempre un giudizio parziale. La nostra vita non si può ridurre a un bignami: ogni respiro e ogni battito del nostro cuore hanno un significato.
Nel Vangelo di Marco 16,15, Gesù disse: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.» Oggi, forse, non c’è più un luogo al mondo dove non sia arrivato il Vangelo di Gesù.
Forse è venuto il momento di entrare nel profondo di ogni creatura, non di dilatarlo nello spazio o nel tempo, ma di riconoscerlo dentro ogni uomo e ogni donna. Forse solo così potremmo riconoscere il Regno di Dio. E forse — ma i miei studi non sono così approfonditi da poterne essere certo — il Regno di Dio sta dentro di noi: basta entrarci. Prima che Gesù tornasse al Padre, Dio non conosceva veramente l’uomo. Non sapeva chi fosse nel profondo. Ma una volta che si è congiunto con il Figlio, da quel momento Dio è diventato un po’ più umano. Lui si è fatto più vicino a noi, e noi siamo diventati, grazie al Figlio, un po’ più simili a Dio. Il Regno non è fuori di noi, ma dentro di noi.
Forse allora anche noi potremmo imparare a non giudicare troppo in fretta ciò che non comprendiamo, a non trarre conclusioni affrettate sulla vita degli altri. Forse dovremmo solo restare — come davanti a un cielo stellato — in silenzio.
La Settimana Santa ci invita a guardare il volto del Re che entra nella città non per dominare, ma per farsi dono, fragile come un respiro. È un Re disarmato, senza trono né eserciti, non sul dorso di Varenne, ma su di un’asina senza nome. E proprio lì, dove tutto sembra perdersi, si rivela la gloria.
Così anche noi, creature tra le creature, potremmo lasciarci portare dalla tenerezza di questo amore che non condanna, ma accoglie. Un amore che non chiede spiegazioni, ma si lascia crocifiggere pur di restare fedele. E in quel silenzio, forse, potremmo riscoprire il senso vero dello stare al mondo:
non per giudicare, ma per accompagnare. Non per possedere, ma per servire. Non per condannare, ma per amare.