L’ho imparato da un musulmano, che mi diceva che, anche nel lavoro che ognuno di loro svolgeva, c’era una sorta di preghiera perpetua rivolta a Dio. Sono sempre stato affascinato dall’Islam perché, a differenza delle altre confessioni, la preghiera è al centro della loro vita quotidiana: uno dei cinque pilastri della loro fede.
Per me, uno dei pilastri della mia fede è la carità, anch’essa una preghiera permanente, che non può essere ristretta a un momento ma deve diventare parte integrante della mia quotidianità.
Per certi versi, anche io penso che un cristiano non possa sdoppiarsi e che anch’egli dovrebbe vivere il proprio lavoro o qualsivoglia impegno sociale con la mente rivolta a Dio. Una sorta di giaculatoria espressa non solo a parole, ma anche con l’esempio concreto della propria esistenza, come la preghiera del cuore, raccontata nel libro Il pellegrino russo. San Paolo, nella sua Lettera ai Colossesi, dice: “Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini” (Col 3,23).
Se, al contrario, si divide l’essere dal solo apparire, si concretizza quella che per Gesù è una vera e propria ipocrisia, che si tramuta nell’infelicità del vivere e si mescola con la mondanità di un’esistenza ipocrita. Apparentemente felice, ma concretamente falsata dal desiderio di possedere.
Io non sono esente da questa ipocrisia, anche io non sono esente dalla doppiezza, e quando avverto che emerge nelle mie azioni, cerco di frenarla, allontanarla, cancellarla dal mio agire e dal mio cuore. Sono figlio della mia terra, non sono un santo e nemmeno un buon esempio per gli altri. Sono peccatore anche io, ma prego sempre Iddio di farmi accorgere dei miei peccati, perché è l’unico modo che ho per pentirmene e, dove è possibile, rimediare, se oltre a colpire me offendono anche gli altri.
La mia coerenza in ciò in cui credo non mi ha aiutato molto, anzi, molte volte è stata un ostacolo. Ma c’è qualcosa dentro di me che mi spinge a essere me stesso, anche quando mi converrebbe recitare una parte. A volte, per ottenere risultati, converrebbe accettare un disordine morale, avvilupparsi dentro un’immoralità dominante, piuttosto che insistere nelle proprie convinzioni, che spesso ti mettono ai margini.
““Guai a voi!” Gesù individua con precisione l’ipocrisia, cioè l’incoerenza tra i principi proclamati e le azioni concrete. È possibile vivere felici quando esiste un abisso tra ciò che dichiariamo essere il bene e ciò che realmente facciamo della nostra vita? Il rimprovero rivolto ai farisei, tuttavia, deve inquietare anche noi. Siamo certi di vivere appieno il Vangelo che annunciamo? Non avvertiamo spesso la distanza tra quello che vorremmo e ciò che facciamo?
Sicuramente sì, ma tale distanza si trasforma in ipocrisia solo quando gettiamo la spugna, quando rinunciamo, in nome di un realismo rassegnato, al cammino della santità. Ipocrita non è colui che non vive il proprio ideale, ma chi ha rinunciato a viverlo. Finché il nostro cuore ci spinge in avanti, fintantoché crediamo che Dio può fare in noi meraviglie, possiamo ancora ascoltare la musica delle beatitudini.”
Essere coerenti con il proprio ideale di vita, anche quando costa, anche quando mette ai margini, è il segno di un cuore che ancora crede nella possibilità di un paese diverso. E finché si rimane in questa tensione, finché si continua a camminare, la speranza è viva.