Il bene “Generale” di Giuseppe Di Vittorio

Se ieri “volevano bene a Giuseppe Di Vittorio anche le pietre”, oggi tutto è cambiato per i sindacalisti contemporanei. Prima di tutto, il concetto di “bene” ha un significato totalmente diverso. O meglio, il significato rimane immutato, ma la sua declinazione è completamente differente.

Vorrei soffermarmi proprio su questa differente declinazione, partendo da un articolo de La Civiltà Cattolica, che riflette sui vent’anni di Facebook e sui cambiamenti che ha portato nella nostra società. Se, agli albori, Facebook era una piattaforma limitata all’ambito universitario e accessibile solo tramite Internet, con la sua espansione mondiale e l’avvento degli smartphone – piccoli computer in miniatura alla portata di tutti – ha cominciato a influire anche sui rapporti interpersonali. Anche in questo caso, è necessario distinguere cosa significava “amicizia” ieri e cosa significa oggi, nell’era dei social media. Sia per il “bene” che per l’”amicizia”, il significato non dovrebbe cambiare nel tempo. Esistono valori che rimangono immutati nell’essere umano sin da quando l’umanità ha iniziato a formare comunità. Questo vale anche per l’amore. Nessuno ci insegna ad amare un padre o una madre, a gioire della luce o a tenere alla vita più di ogni altra cosa. Allo stesso modo, l’amore per Dio non si insegna. Non è un atteggiamento esteriore a farci amare Dio; nella natura stessa dell’essere umano si trova il seme che contiene il principio di questa attitudine ad amare.

Se accettiamo questo pensiero, dobbiamo ammettere che esistono elementi fondamentali nell’essere umano, nati con lui stesso. Il bene, l’amicizia e l’amore sono consustanziali all’essere umano, che può solo declinarli nella sua esistenza terrena. Osservando l’ambito sociale in cui vive e in cui crede, possiamo comprendere quanto la loro declinazione sia coerente con il loro significato originale e quanto, invece, lo abbiano perso.

Non c’è dubbio che i social media e piattaforme come Facebook abbiano avuto e abbiano tuttora aspetti positivi: tra questi, possiamo ricordare la connessione sociale, l’accesso alle informazioni, le piattaforme di supporto e aggregazione. Tuttavia, a questi lati positivi si aggiungono inevitabilmente anche aspetti negativi: devianza e isolamento sociale, problemi di privacy, disinformazione e manipolazione politica, effetti psicologici negativi, cyberbullismo e riduzione dei contatti sociali reali. Anche in questi effetti, però, a volte non è chiaro dove finisca il lato positivo e dove inizi quello negativo. Se il Parlamento italiano dovrebbe essere la rappresentazione plastica degli italiani, e non lo è, come dimostrano le astensioni registrate e la scarsa partecipazione politica negli ultimi anni, di Facebook e delle altre piattaforme social possiamo dire che, per molti aspetti, non sono solo vetrine di contenuti, ma anche riflessi delle dinamiche e delle interazioni umane. Facebook è lo specchio che non altera la realtà, ma piuttosto la mostra in tutte le sue sfumature. Questa costruzione dell’identità online è al tempo stesso autentica e, in qualche modo, distorta: gli utenti possono proiettare una versione idealizzata di sé stessi, riflettendo il desiderio sociale di essere accolti e approvati. In questo senso, lo “specchio” di Facebook non è sempre nitido; può essere un riflesso amplificato e, a tratti, deformato, di come gli utenti desiderano apparire.

A questo punto, possiamo analizzare il “bene” che i lavoratori, persino quelli più tenaci e duri come le pietre, provavano per Di Vittorio. Possiamo interrogarci su quanto il “bene” che i lavoratori di oggi sentono per i sindacalisti contemporanei abbia mantenuto le sue caratteristiche originali o se, invece, immerso nella nuova comunicazione dei social media, abbia perso parte del suo significato. E quanti dei sindacalisti contemporanei hanno mantenuto intatto, nella loro attività, quel significato? Oppure quel “bene” è diventato un bene di consumo, deformato, manipolato per apparire connesso a un valore antico, ma che, in realtà, si è trasformato in un bene falso e menzognero.

Se i lavoratori volevano bene a Di Vittorio, significa che anche Di Vittorio si faceva voler bene dai lavoratori. Sono certo che se oggi ci fosse a Soverato un sindacalista come lui, i lavoratori, prima di rivolgersi alla Guardia di Finanza o all’Ispettorato del lavoro, come hanno dovuto fare i dipendenti dei supermercati Paoletti e di molti altri, di sicuro lo andrebbero a cercare. Se ai tempi di Di Vittorio questo bene era anche interazione sociale e umana, oggi, nel mondo parallelo dei social, tutto si è ridotto a una mediazione digitale per esprimere indignazione.

Anche in questo frangente, l’attività e l’azione sindacale sono cambiate rispetto ai tempi di Di Vittorio. Se prima i rapporti umani erano assolutamente necessari per generare lotta e difesa dei diritti, oggi anch’essi si declinano diversamente. Tutto si riduce ai comunicati sui social, su TikTok; tutto diventa merce, narrazione mediatica, rappresentazione di qualcosa che è più affine alla menzogna che alla verità e alla vera lotta. Oggi, il sindacato dovrebbe declinare il “bene” per i lavoratori come una missione quotidiana. Il primo pensiero di un sindacalista di oggi, date le condizioni in cui versano i lavoratori in Calabria e non solo, dovrebbe essere quello di entrare in contesti dove il lavoro è sfruttato e dove ai lavoratori è tolta la dignità. Esistono veri e propri perimetri di sfruttamento, dove l’impedimento alla sindacalizzazione dei lavoratori è già un segnale d’allarme su quanto essi debbano subire angherie e soprusi.

A ben vedere, non ci sono parole da inventare: una c’è ed è antica: “cazzari”.

Una cosa è la precarietà del lavoro e le leggi che lo regolano. Un’altra cosa è l’abuso di queste leggi e delle rispettive tipologie contrattuali. Una cosa è la Meloni, un’altra ancora è Landini e i problemi dell’universo del lavoro. Un’altra cosa, invece, è la responsabilità individuale dei sindacalisti nei territori e la scarsa penetrazione sindacale. Dalla “chiesa in uscita” di Francesco, nel nostro territorio, in alcuni ambiti abbiamo il sindacalismo attendista. Se Francesco parla di chiesa come tenda da campo, nel nostro territorio abbiamo un sindacato che preferisce le cliniche private alle camere del lavoro, intese come presidi di legalità e non solo come disbrigo pratiche. Basta un segnale dai social o dai giornali e la macchina degli attendisti e della burocrazia si mette in moto, più o meno come fanno i preti con i funerali.

Quante volte ho sentito pronunciare da sindacalisti parole come: “Se non ti piace come ti tutelo, cambia sindacato”. Oppure, davanti ai lavoratori: “Io sono il segretario generale, o si fa come dico io o cambiate sindacato.” Se fossero solo parole dette in un momento di ira, potrebbero anche passare, ma ormai il bene del sindacato non ha un aspetto Generale, come lo intendeva Di Vittorio. Una cosa sono le foto su Facebook; un’altra sono i rapporti e la declinazione del bene di tanti, forse troppi, sindacalisti da salario garantito.

C’è uno strumento chiamato “inchiesta”, e non è solo appannaggio dei giornalisti. A questo proposito, voglio ricordare un libro da leggere, proprio frutto di un’inchiesta: Uomini e caporali di Alessandro Leogrande. E a ben vedere, la “G” nella sigla CGIL sta per “Generale”. La lotta che la CGIL e i suoi sindacalisti portano avanti non è rivolta soltanto ai loro tesserati, ma a tutti i lavoratori, a tutti quelli che rientrano nella “bestialità della sopraffazione”.

Generale oggi significa restituire il “bene” che i lavoratori provavano per Di Vittorio, con il suo significato originale: a tutti. Se il “bene” passa solo sui social per l’indignazione rituale, assume un altro significato.

Potremmo oggi inventare un termine che includa tutti quei profili social che esprimono indignazione, per poi subire in silenzio le stesse ingiustizie nella loro vita quotidiana. È più facile postare una foto per ricordare il “bene” di Di Vittorio che ripristinare a Soverato ciò che una volta si chiamava “Camera del lavoro Giuseppe Di Vittorio” e che ora è stata intitolata a Luigi Vitale. Se per le istituzioni repubblicane, per intitolare un monumento o una piazza ci vogliono 10 anni dalla morte, per la CGIL Area Vasta Centro lo fanno pure quando ancora il sindacalista è in vita.

In un mondo dove tutto sembra trasformarsi in rappresentazione, il vero valore del “bene” è nella sua capacità di agire concretamente, andando oltre l’apparenza e restituendo autenticità al rapporto tra sindacato e lavoratori. Solo così il “bene” può tornare a essere, come ai tempi di Di Vittorio, un legame reale e profondo. “La vera lotta per la giustizia non sta nelle parole, ma nell’azione” – un principio che Di Vittorio incarnava e che oggi può guidarci nel recupero di un’autenticità che il digitale non può sostituire.

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