IL PATTO EUROPEO SULLA MIGRAZIONE E L’ASILO E L’INSEGNAMENTO SOCIALE DELLA CHIESA

Alberto Ares Mateos S.I. – Claudia Bonamini

Il Patto europeo sulla migrazione e l’asilo (da ora in avanti «il Patto») è stato adottato formalmente dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’Ue, rispettivamente, nell’aprile e nel maggio 2024. Il pacchetto comprendente 10 testi legislativi è il risultato di oltre tre anni di negoziati istituzionali, perché riforma e sostituisce i diversi strumenti inclusi nel cosiddetto «Sistema europeo comune di asilo». L’intento dichiarato del Patto, presentato dalla Commissione europea nel settembre 2020, era di fornire «un approccio globale, che contempla le politiche nei settori della migrazione, dell’asilo, dell’integrazione e della gestione delle frontiere, riconoscendo che l’efficacia complessiva dipende dai progressi compiuti su tutti i fronti». Il Patto mirava inoltre a creare «processi migratori più rapidi e fluidi e una governance più forte delle politiche in materia di migrazione e frontiere, sostenuta da sistemi informatici moderni e da agenzie più efficaci». S’impegnava inoltre a «ridurre le rotte non sicure e irregolari, a promuovere percorsi legali sostenibili e sicuri per coloro che necessitano di protezione» e a rispecchiare «il fatto che la maggior parte dei migranti arriva nell’Ue attraverso canali legali, che dovrebbero combaciare meglio con le esigenze del mercato del lavoro dell’Ue». Infine, il Patto voleva essere anche «un nuovo inizio» e ricostruire la fiducia fra Stati membri e cittadini europei, dopo anni di trattative inconcludenti sulle questioni migratorie e in un contesto di evidente riluttanza o incapacità degli Stati membri ad attuare la legislazione esistente.

Le origini del Patto

Le radici del Patto e la logica su cui esso si basa risalgono al 2015-16. All’epoca, l’Ue si trovò a fronteggiare un aumento relativamente forte e improvviso degli arrivi di migranti in cerca di protezione internazionale alle sue frontiere esterne, in particolare in Italia, in Grecia e lungo la cosiddetta «rotta balcanica». Questa situazione mise in luce e aggravò i difetti di un «Sistema europeo comune di asilo» che non era mai stato pienamente attuato. I già deboli sistemi di accoglienza di Paesi come Italia e Grecia furono messi ulteriormente sotto pressione. Molti individui che vi erano giunti si trasferirono, per raggiungere i Paesi del Nord Europa. Questi Stati membri – per esempio, Germania, Francia e Regno Unito – avevano tradizionalmente accolto molte persone in cerca di protezione, ma, quando i numeri si sono notevolmente accresciuti, hanno iniziato a denunciare il fatto che gli Stati membri di primo ingresso lasciavano allontanare i richiedenti asilo, spesso senza prenderne le impronte digitali, nonostante gli obblighi derivanti dalla «Convenzione di Dublino». Sia gli Stati membri sia le istituzioni dell’Ue dichiararono inadatto allo scopo il «Sistema di Dublino», concepito per determinare quale Stato membro fosse competente per una richiesta di asilo. Allo stesso tempo, Grecia e Italia chiedevano solidarietà e sostegno per far fronte alla pressione sui loro sistemi.

Molti saranno trattenuti in condizioni di detenzione, e la loro richiesta di protezione sarà spesso respinta, senza un vero esame.

Sostanzialmente l’intera Ue ha reagito con il panico, inducendo la Commissione europea a presentare una serie di proposte di riforma nel 2016. L’obiettivo principale di tali proposte era quello di scoraggiare i cosiddetti «movimenti secondari» (gli spostamenti successivi di persone provenienti dagli Stati membri di primo ingresso verso gli Stati membri nord-occidentali dell’Ue). Per raggiungere questo obiettivo furono istituite, tra l’altro, maggiori possibilità di detenere i richiedenti asilo che si erano allontanati dal loro primo Paese d’ingresso, nonché la possibilità di rifiutare loro le condizioni materiali di accoglienza. D’altra parte, la Commissione europea ha voluto introdurre un «meccanismo di assegnazione correttivo», ossia una procedura per assegnare e ricollocare automaticamente i richiedenti asilo dagli Stati membri sotto pressione verso altri Stati membri. In questo modo la Commissione voleva garantire che il maggiore carico legato al trattamento delle domande di asilo fosse condiviso equamente in tutta l’Ue.

Su quest’ultimo punto gli Stati membri non sono mai riusciti a trovare un accordo. Poiché i negoziatori avevano deciso che la riforma avrebbe potuto procedere solo se fosse stato trovato un consenso interistituzionale sull’intera proposta in esame (comprese, tra le altre, nuove norme sulle condizioni di accoglienza e sulla procedura di asilo), alla fine della legislazione nel 2019 la riforma si è bloccata.

Dove ci porta il Patto

Uno sguardo alle proposte presentate dalla Commissione europea nel settembre 2020 ha presto evidenziato che il Patto non è riuscito a garantire il «nuovo inizio» promesso, perché le sue buone intenzioni sono state in gran parte offuscate da una serie di preoccupazioni morali e giuridiche. Gli anni di trattative che sono seguiti purtroppo non hanno migliorato le proposte, anzi, il risultato finale ha abbassato ulteriormente gli standard di protezione in diversi punti2. In poche parole, il Patto ci porta verso uno scenario in cui molte delle persone che arrivano irregolarmente alle frontiere esterne dell’Ue saranno trattenute lì, probabilmente in condizioni di detenzione de facto, e la loro richiesta di protezione sarà spesso respinta senza un adeguato esame nel merito. Come poi illustreremo, i bambini e le persone vulnerabili non saranno automaticamente esentati da tale trattamento. Nei piani dei legislatori, dopo il rigetto di una richiesta di asilo alla frontiera, le persone dovrebbero essere rapidamente allontanate verso il loro Paese d’origine o verso un Paese terzo sicuro.

Nella pratica, sappiamo che il rimpatrio delle persone non è così facile come sembra. Numerose criticità, tra cui soprattutto le preoccupazioni relative ai diritti umani, spesso lo rendono concretamente impossibile. Pertanto, se le autorità non riescono a rimpatriare le persone entro i termini legali, saranno costrette a liberarle dalle procedure di frontiera. In questo senso, l’attuazione del Patto potrebbe in definitiva portare a un aumento, piuttosto che a una riduzione, delle persone in soggiorno irregolare nel territorio dell’Ue. Si tratta di persone che potrebbero a pieno titolo necessitare di protezione internazionale, ma la cui domanda non è stata esaminata nel merito, e potrebbe non esserlo mai, in quanto la presentazione di una successiva domanda di asilo è sottoposta all’obbligo di fornire nuovi elementi.

Gli stessi negoziatori del Patto si affrettano ad ammettere che il compromesso raggiunto non è ideale e che nessuno ne è pienamente soddisfatto. Tuttavia sono irremovibili nel presentarlo come un risultato storico, che ha mostrato ai cittadini europei come l’Ue sia in grado di concordare politiche migratorie comuni e di dare soluzione ai problemi preoccupanti, come la migrazione. Proprio per questo, anche nell’ultimo mese di legislatura le trattative sono state affrettate, per evitare che ci si presentasse nuovamente agli elettori con una riforma incompleta. Ciò, come abbiamo sentito dire più volte, sarebbe stato utile nei confronti delle forze di estrema destra antieuropee e contrarie all’immigrazione.

Contestiamo fermamente questo punto di vista. Come vedremo in dettaglio più avanti, il Patto propone una politica europea incentrata sulla prevenzione degli arrivi e sull’esternalizzazione della responsabilità di proteggere i rifugiati verso altri Paesi. Si tratta di un compromesso che aumenterà la sofferenza della gente e ridurrà la protezione e le garanzie legali, senza migliorare significativamente la solidarietà tra gli Stati membri, rafforzando, anzi, posizioni di chiusura e di intolleranza. Ciò è in forte contrasto non solo con la Dottrina sociale della Chiesa, ma anche con gli stessi princìpi fondanti dell’Ue.

In ogni caso, il Patto è ormai una realtà e gli Stati membri avranno due anni di tempo per prepararsi ad attuarlo. Si profilano all’orizzonte notevoli sfide giuridiche e operative. Allo stesso tempo, questa fase attuativa potrebbe offrire ancora delle opportunità per mitigare il potenziale danno umanitario del Patto. Occorrerà quindi prestare molta attenzione all’uso della detenzione, che non dovrebbe mai diventare automatica ogniqualvolta si applicano le procedure di frontiera. Sarà inoltre molto importante garantire che la società civile – comprese le istituzioni cattoliche – possa avere accesso alle persone detenute alle frontiere, soprattutto in un contesto in cui l’accesso alle informazioni e all’assistenza legale sarà limitato. Infine, sarà anche rilevante poter contare sulla cooperazione che l’Ue e i suoi Stati membri instaureranno con i Paesi terzi.

Sebbene l’aiuto finanziario dell’Ue sia fondamentale per sostenere in molte parti del mondo i sistemi di protezione sul territorio e le comunità locali che ospitano la maggior parte degli sfollati forzati a livello globale, esso non può essere strumentalizzato per impedire ai rifugiati di recarsi in Europa, né può essere visto come un sostituto della responsabilità di accogliere e proteggere le persone bisognose nella nostra regione.

Un’analisi del Patto con uno sguardo cristiano

Sono già state effettuate numerose analisi giuridiche sul Patto, che hanno evidenziato interrogativi e preoccupazioni circa la sua compatibilità con gli standard internazionali sui diritti umani3. Proponiamo qui di guardare al Patto con uno «sguardo cristiano» e di lasciarci guidare dalle parole di papa Francesco e dalla Dottrina so-ciale della Chiesa. Riteniamo importante soffermarci a riflettere sui valori in cui crediamo e che dovrebbero guidare le nostre politiche e l’ideazione di adeguate cornici giuridiche. Pertanto analizzeremo in che misura il Patto in oggetto si allinei ai valori cristiani e ai princìpi della dignità umana, della solidarietà e dell’opzione preferenziale per i poveri. Ci chiederemo inoltre con particolare attenzione se il quadro giuridico approntato dal Patto sia idoneo a rispondere alle sfide della migrazione compendiate nei quattro verbi indicati da papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti (FT): «I nostri sforzi nei confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, non si tratta di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana» (FT 129).

La dignità umana in pericolo

Ci facciamo guidare ancora dalle parole del Pontefice: «Vi sono diritti fondamentali che precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio» (FT 124). E, in una differente occasione, egli ha scritto: «Il principio della centralità della persona umana […] ci obbliga ad anteporre sempre la sicurezza personale a quella nazionale. Di conseguenza, è necessario formare adeguatamente il personale preposto ai controlli di frontiera. Le condizioni di migranti, richiedenti asilo e rifugiati postulano che vengano loro garantiti la sicurezza personale e l’accesso ai servizi di base. In nome della dignità fondamentale di ogni persona, occorre sforzarsi di preferire soluzioni alternative alla detenzione per coloro che entrano nel territorio nazionale senza essere autorizzati»4.

Uno dei pilastri del patto dell’Ue su migrazione e asilo è l’introduzione di procedure obbligatorie alle frontiere. Secondo il Patto, tutte le persone che arrivano irregolarmente alle frontiere esterne dell’Unione saranno trattenute e sottoposte ad accertamenti, tra i quali controlli sanitari, di identità e di sicurezza, che dureranno fino a sette giorni. Successivamente, i richiedenti protezione internazionale verranno incanalati in procedure di frontiera in tre casi: 1) se hanno ingannato le autorità; 2) se sono considerati un pericolo per la sicurezza nazionale o per l’ordine pubblico; 3) se sono di una nazionalità per la quale il tasso di riconoscimento nella procedura di asilo a livello Ue è pari o inferiore al 20%. Il presupposto di fondo è che le persone di tali nazionalità difficilmente riceveranno uno status di protezione, e quindi verranno respinte. Trattenerle tramite le procedure di frontiera dovrebbe, secondo il legislatore, rendere più facile per gli Stati membri rimpatriarle. Per questi motivi, chi si vedrà respingere la domanda nel corso della procedura di frontiera per l’asilo verrà ulteriormente trattenuto alla frontiera per prepararne il rientro secondo un’apposita procedura di rimpatrio.

Le procedure di frontiera sono problematiche per diversi motivi. Innanzitutto, si verificano in tempi più rapidi rispetto alle procedure regolari, dando meno tempo alle persone interessate per raccogliere informazioni e cercare supporto legale. Inoltre, esse di solito partono dal presupposto che la richiesta non sarà ammissibile (perché, per esempio, la persona potrebbe essere trasferita in un altro «Paese sicuro») o che non sarà fondata (per esempio, perché la persona proviene da un Paese considerato «Paese di origine sicuro»). In tutti questi casi, l’onere di confutare tale supposizione ricadrà interamente sui richiedenti asilo, che spesso dovranno farvi fronte impreparati e senza supporto legale.

Tuttavia, l’aspetto più problematico delle procedure di frontiera è che implicano in pratica il ricorso alla detenzione. Nel contesto del Patto, le persone che arrivano alle frontiere potrebbero essere trattenute per un totale di sei mesi e una settimana (sette giorni per lo screening, 12 settimane per la procedura di asilo alla frontiera, e altre 12 per la procedura di rimpatrio dalla frontiera). Numerosi studi dimostrano che il ricorso alla detenzione, anche per brevi periodi, è molto dannoso per la salute fisica e mentale di chi lo subisce. Inoltre, nel caso dei migranti che giungono alle frontiere, parliamo di persone che arrivano da viaggi spesso molto lunghi e pericolosi; che sono sopravvissute alla traversata di deserti e mari; che sono in fuga da guerre, persecuzioni o povertà estrema. La grande maggioranza di loro si troverà in situazioni di vulnerabilità. Accoglierle inserendole in centri di detenzione è in contrasto con l’idea di accoglienza e di protezione sostenuta da papa Francesco.

Inoltre, numerosi rapporti, così come l’esperienza diretta fatta dal Jesuit Refugee Service ( JRS) nelle visite ai centri di detenzione in molti Paesi europei, mostrano che le condizioni in tali centri sono spesso tutt’altro che umane. Un Patto che crea una simile cornice di riferimento, basata soprattutto sul ricorso alla detenzione, senza nemmeno stabilire eccezioni per i minori o per le persone vulnerabili, mette senza dubbio a rischio il rispetto della dignità umana.

Una solidarietà selettiva

Come ha spiegato papa Francesco, la parola «solidarietà» non sempre piace: «Direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia» (FT 116).

Inoltre, la Dottrina sociale della Chiesa ci ricorda che «la solidarietà conferisce particolare risalto all’intrinseca socialità della persona umana, all’uguaglianza di tutti in dignità e diritti, al comune cammino degli uomini e dei popoli verso una sempre più convinta unità. […] A fronte del fenomeno dell’interdipendenza e del suo costante dilatarsi, persistono, d’altra parte, in tutto il mondo, fortissime disuguaglianze tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo […]. Il processo di accelerazione dell’interdipendenza tra le persone e i popoli deve essere accompagnato da un impegno sul piano etico-sociale altrettanto intensificato, per evitare le nefaste conseguenze di una situazione di ingiustizia di dimensioni planetarie»5.

Il valore della solidarietà è senza dubbio al centro dell’essere cristiani. Il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, al n. 193, definisce la solidarietà come «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti». A prima vista, quindi, l’annuncio che il Patto dell’Ue sulla migrazione e l’asilo introduce un «meccanismo di solidarietà permanente» indurrebbe a rallegrarsi. Purtroppo, appare subito chiaro che l’interpretazione data dal legislatore comunitario alla nozione di «solidarietà» è molto selettiva.

Innanzitutto, ogni volta che il Patto parla di solidarietà, questa è intesa solo come solidarietà tra Stati membri. Nonostante l’annunciato impegno per il rispetto dei diritti dei migranti e dei rifugiati, il Patto mostra nel complesso una solidarietà molto limitata nei confronti di quanti arrivano in Europa in cerca di protezione dalla guerra o in fuga da disastri naturali o dalla povertà estrema. La visione di fondo del Patto presenta i migranti e i richiedenti asilo, nel migliore dei casi, come gente che cerca di aggirare le regole dell’Ue per raggiungere una destinazione che essa ritiene propizia per trovare protezione e opportunità. Nel peggiore dei casi, i migranti vengono considerati come una minaccia alla nostra sicurezza e al nostro stile di vita.

In secondo luogo, anche per quanto riguarda l’obiettivo – legittimo e necessario – di promuovere la solidarietà tra gli Stati membri, il Patto non riesce a creare un sistema davvero convincente. Il «meccanismo di solidarietà» dovrebbe garantire che gli Stati membri che si trovano in una situazione di «elevata pressione migratoria» – cioè quelli che devono far fronte a un forte aumento improvviso o prolungato degli arrivi alle loro frontiere esterne – possano contare sul sostegno degli altri Stati membri.

Tuttavia, il Patto lascia gli Stati membri liberi di scegliere come mostrare solidarietà agli Stati membri bisognosi. Essi hanno tre op-zioni: 1) possono offrire di ricollocare nel proprio territorio i richiedenti asilo dagli Stati membri sotto pressione; 2) possono offrire sostegno finanziario o logistico allo Stato membro sotto pressione; 3) possono dare un contributo finanziario a un Paese terzo al di fuori dell’Ue, convinti che, rafforzando i sistemi di asilo altrove, diminuiranno le persone che cercheranno di raggiungere l’Ue.

Questo sistema è problematico a più livelli. Innanzitutto, come abbiamo visto, la pietra angolare del Patto è l’attenzione alle procedure obbligatorie di frontiera per un ampio gruppo di persone. Creando un tale sistema, si addossa un carico di lavoro più elevato – e quindi un rischio maggiore di trovarsi in una situazione di pressione migratoria – agli Stati membri che sono alle frontiere geografiche esterne dell’Ue. Allo stesso tempo, però, il meccanismo di solidarietà non obbliga gli altri Stati membri a ricollocare persone nel proprio territorio, se i Paesi alle frontiere esterne necessitano di sostegno nella gestione della domanda di asilo.

L’invio di contributi finanziari o logistici agli Stati membri bisognosi può certamente essere molto utile e, in alcuni casi, potenzialmente più efficace rispetto all’istituzione di un programma di ricollocazione. Tuttavia, il fatto che gli Stati membri non siano mai riusciti a raggiungere un accordo sulla ricollocazione obbligatoria, né siano entusiasti di impegnarsi in tal senso, mette in luce la loro vera scelta programmatica: tenere i richiedenti asilo lontani dal loro territorio e non doversi assumere la responsabilità di proteggerli. Un simile atteggiamento è certamente all’opposto di ciò che s’intende per solidarietà.

In secondo luogo, la possibilità per gli Stati membri di «riscattare» il proprio dovere di solidarietà inviando contributi finanziari a Paesi al di fuori dell’Ue è davvero inquietante. Con ciò non vogliamo affatto dire che l’Europa – una delle regioni più ricche del mondo – non dovrebbe sostenere finanziariamente i Paesi terzi nel rafforzarne i sistemi di protezione. Al contrario, in un contesto in cui 117,3 milioni di persone sono costrette a sfollare in tutto il mondo, e il 75% di esse trova ospitalità in Paesi a basso e medio reddito, la solidarietà internazionale è assolutamente necessaria. Il problema che deriva dall’inclusione di tale opzione nel Patto è un altro: ancora una volta questa azione non è effettivamente al servizio di una stra tegia di protezione per le persone bisognose; al contrario, s’inquadra in una tendenza a esternalizzare la responsabilità di proteggere il territorio dell’Unione, indirizzandola altrove. Inoltre, questo contributo finanziario è spesso subordinato al fatto che il Paese terzo destinatario adotti misure per impedire alle persone di raggiungere l’Ue.

Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi tentativi, da parte dell’Ue o dei suoi Stati membri, di concludere accordi con Paesi che si trovano in una situazione molto dubbia sotto il profilo dei diritti umani, come la Turchia, la Tunisia o l’Egitto. Più di recente, l’Ue ha firmato un accordo per inviare un consistente aiuto finanziario al Libano, un Paese di cui un quarto della popolazione è composto da rifugiati. Il sostegno è gradito, ma ha un prezzo: maggiori controlli alle frontiere, per evitare partenze via mare verso Cipro. Per raggiungere tale obiettivo, l’Ue si dichiara pronta anche a esplorare la fattibilità di ritorni in Siria. Questa però non è solidarietà internazionale: equivale piuttosto a lavarsi le mani dalla responsabilità di proteggere i rifugiati.

Il Patto e l’opzione preferenziale per i poveri

Ascoltiamo di nuovo le parole di papa Francesco: «I migranti vengono considerati non abbastanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona. Pertanto, devono essere “protagonisti del proprio riscatto”. Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani» (FT 39). E ancora: «Nessuno dunque può rimanere escluso, a prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi» (FT 121).

Un principio dell’insegnamento sociale della Chiesa stabilisce che la priorità dovrebbe sempre andare al benessere dei poveri e degli indifesi nella società: è la cosiddetta «opzione preferenziale per i poveri». Coloro che sono stati sfollati con la forza sono tra le persone più impotenti della nostra società. Rifiutati o perseguitati dalla società di origine, costretti a fuggire a causa della povertà estrema o dell’impatto del cambiamento climatico, essi devono andarsene e cercare protezione e opportunità altrove.

Agire secondo l’opzione preferenziale per i poveri, nel contesto della migrazione, significa accogliere le persone all’interno della nostra società, cercare l’incontro, offrire protezione, includere e integrare nelle nostre comunità, dare priorità alle persone e ai loro bisogni rispetto ad altre considerazioni. L’Ue è una delle regioni più ricche del mondo, con l’ambizione di essere uno spazio di libertà e sicurezza per tutti. Quello di accogliere e tutelare le persone bisognose di protezione non è solo un obbligo giuridico secondo i princìpi fondanti dell’Ue, ma anche un dovere morale, indubbiamente in una prospettiva cristiana.

Papa Francesco ci ricorda ripetutamente che l’ospitalità è profondamente legata alle nostre radici cristiane. Il nostro padre Abramo fu chiamato a lasciare la sua terra natale. Ospite e pellegrino in terra straniera, accoglieva i viandanti che passavano davanti alla sua tenda (cfr Gen 18). Esiliato dalla sua terra e senza patria, fu per tutti casa e patria. E come ricompensa per la sua ospitalità ricevette il dono della posterità. «Noi credenti, dunque, dobbiamo essere esemplari nell’accoglienza reciproca e fraterna», denunciando «il tarlo dell’estremismo e la peste ideologica del fondamentalismo che corrodono la vita reale delle comunità»6.

Tuttavia, nel Patto dell’Ue viene prestata scarsissima attenzione ai bisogni delle persone. Fin dall’inizio, esso è stato costruito in ossequio alla logica e alle priorità degli Stati membri: ridurre gli arrivi, fermare i cosiddetti «movimenti secondari» tra gli Stati membri, rimpatriare rapidamente le persone che si sono viste respingere la domanda di asilo. Inoltre, il Patto rafforzerà la tendenza già esistente a segregare fisicamente le persone dalle comunità locali: per esempio, nei centri di detenzione ai confini. Nemmeno coloro a cui sarà consentito di entrare nel territorio degli Stati membri avranno accesso pieno e immediato alla vita della comunità locale. In questo senso il Patto conferma e rafforza ancora una volta la pratica attuale di mettere «in attesa» la vita delle persone mentre attendono l’esito della loro richiesta di asilo. I sistemi di accoglienza seguono già in larga misura il modello dei centri di raccolta su vasta scala, spesso situati ai margini delle comunità locali: contesti che rendono le persone dipendenti dagli aiuti e rendono per loro ardua la possibilità di interagire con la gente del posto. Ne segue un ovvio impatto negativo sulle loro prospettive di integrazione e partecipazione alla società, se alla fine viene loro permesso di restare.

Un altro esempio di come il Patto Ue si discosti nettamente dall’opzione preferenziale per i poveri è la legislazione sulla cosiddetta «strumentalizzazione». Questo concetto è compreso nel «Regolamento concernente le situazioni di crisi»7 ed è definito come «una situazione in cui un Paese terzo o un attore non statale ostile incoraggia o favorisce lo spostamento di cittadini di Paesi terzi o di apolidi verso le frontiere esterne o verso uno Stato membro con l’intenzione di destabilizzare l’Unione o uno Stato membro, e laddove tali azioni possano mettere a repentaglio funzioni essenziali di uno Stato membro, ivi incluso il mantenimento dell’ordine pubblico o la salvaguardia della sicurezza nazionale»8. Quando si verifica tale situazione, gli Stati membri possono derogare all’ordinaria procedura di asilo e decidere di sottoporre ai controlli di frontiera tutti i richiedenti asilo in arrivo. Come abbiamo spiegato in precedenza, ciò significherà di fatto che le persone verranno detenute.

Anche lasciando da parte l’alto rischio di politicizzazione insito in tale concetto, è chiaro che qui i diritti delle persone vengono sminuiti a favore degli interessi degli Stati membri. A pagarne le conseguenze saranno proprio le persone che cercano protezione e che non hanno alcuna colpa per essere state strumentalizzate, e non l’effettivo responsabile della strumentalizzazione (un Paese terzo ostile o un soggetto non statale). Per quanto riguarda poi la tratta degli esseri umani, il Patto, pur non affrontando direttamente tale questione, cerca di combatterla. Tuttavia, l’accento che esso pone sull’accelerazione delle procedure di asilo e sui controlli alle frontiere può rendere più difficile l’accesso delle vittime di tratta alla protezione e all’assistenza. Esse possono essere riluttanti a rivelare le loro esperienze per paura di ritorsioni o per mancanza di fiducia nelle autorità. Le procedure accelerate possono comportare una verifica inadeguata degli indicatori di tratta e un tempo insufficiente per le vittime per denunciare. L’attuazione del Patto deve garantire che i diritti e la protezione delle vittime di tratta non siano compromessi, promuovendo anche un efficace coordinamento e allineamento tra il Patto e la strategia anti-tratta dell’Ue. 

Infine, pochi elementi del Patto Ue danno priorità agli interessi e ai bisogni delle persone sfollate in modo forzato. Uno dei progetti più significativi è il «Quadro di reinsediamento dell’Unione» (Union Resettlement Framework), che si spera dia un nuovo slancio agli Stati membri affinché si attengano meglio ai loro impegni e a reinsediare effettivamente un numero maggiore di rifugiati da Paesi terzi. Tuttavia, questi elementi sono purtroppo ampiamente messi in ombra dallo spirito generale di esclusione ed esternalizzazione espresso nel Patto.

Per una politica europea compassionevole e inclusiva sulle migrazioni

Riproponiamo le affermazioni di papa Francesco: «Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di un’Europa unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la diversità che la abita. Ricordiamo la ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra tutti i popoli del continente» (FT 10). E inoltre: «“Le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo”. Ma oggi esse risentono di una “perdita di quel senso della responsabilità fraterna, su cui si basa ogni società civile”. L’Europa, ad esempio, rischia seriamente di andare per questa strada. Tuttavia, “aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, [ha] gli strumenti per difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti”» (FT 40).

La Dottrina sociale della Chiesa mette in primo piano la dignità intrinseca di ogni essere umano, indipendentemente dal suo status giuridico o dal Paese di origine. Papa Francesco ha sostenuto con forza un approccio più compassionevole e inclusivo alla migrazione. Purtroppo, il Patto europeo sulla migrazione da poco adottato non riesce a fornire un quadro in cui i quattro verbi indicati dal Pontefice – accogliere, proteggere, promuovere, integrare – trovino effettivo terreno per svilupparsi. Preoccupato com’è dell’esternalizzazione delle responsabilità, della concentrazione delle persone alle frontiere esterne, della dissuasione dagli arrivi, della riduzione della libertà delle persone, il Patto fallisce la prova, se lo si analizza dalla prospettiva degli insegnamenti sociali cattolici. Tuttavia, ormai è stato adottato e andrà attuato.

In questa fase, è più che mai necessario un forte appello, da parte della Chiesa, per un approccio compassionevole e inclusivo, che mitighi il potenziale danno causato dalla legislazione. A tale proposito, si possono offrire alcune raccomandazioni in almeno cinque ambiti, affinché l’attuazione del Piano possa davvero garantire protezione, favorire una vera solidarietà e tutelare la dignità dei migranti e dei rifugiati.

1) Per quanto riguarda la protezione rafforzata e gli standard di accoglienza, è necessario garantire condizioni di accoglienza dignitose per tutti i richiedenti asilo, compreso l’accesso ai bisogni primari, come cibo, alloggio e assistenza sanitaria. Inoltre, bisogna disegnare procedure più efficienti e umane per il trattamento delle domande di asilo, riducendo il rischio di detenzione e garantendo processi decisionali equi e trasparenti. 2) In tema di solidarietà e condivisione delle responsabilità, appare doveroso incoraggiare la ricollocazione e la condivisione degli oneri tra gli Stati membri, anziché fare affidamento su rimpatri forzati e detenzione. Inoltre, sono necessari schemi di ricollocazione decentralizzati e basati sulla comunità che coinvolgano le autorità locali, la società civile e iniziative di base per sostenere gli sforzi di ricollocazione.

3) Per le politiche di integrazione e inclusività, si raccomanda di promuovere scambi interculturali, istruzione e opportunità di lavoro, riconoscendo il valore della diversità culturale dei migranti e promuovendo una società che accoglie gli stranieri. Inoltre, sono richieste politiche che sostengano il ricongiungimento delle famiglie e la protezione dei gruppi vulnerabili, come le donne incinte, i bambini e le persone con necessità mediche.

4) Altro grande nodo è quello delle cause profonde delle migrazioni. Per affrontare i fattori di spinta che sono le cause della migrazione bisogna sostenere lo sviluppo e la stabilità nei Paesi di origine e promuovere la cooperazione con i Paesi terzi. È altresì necessario attuare politiche di rimpatrio più efficaci e umane, concentrandosi sui ritorni volontari e sui programmi di reinserimento, piuttosto che sui rimpatri forzati e sulla detenzione.

5) Infine, va affrontato il tema della trasparenza e della responsabilità. Ci si attende trasparenza nelle procedure di asilo e nei processi decisionali, con informazioni chiare e accessibili per i richiedenti e per il pubblico. E che gli Stati membri vengano richiamati alle loro responsabilità ai sensi della legislazione europea sull’asilo, prevenendo deroghe e garantendo il rispetto degli standard internazionali sui diritti umani.

L’articolo è risposo dalla numero n. 4181 La Civiltà Cattolica