La rabbia di Dio e il silenzio delle sindacaliste dell’otto marzo.

Sono più rumorosi il silenzi nelle preghiere, che i commiati floreali di silenzi. 

Il silenzio del Presidente Mattarella davanti alle bare nel palazzetto non è assenza di parole.  Nessuno potrebbe imitarlo nel suo silenzio, al contrario tutti gli altri, dovrebbero dare voce fuori dal palazzetto alle parole non pronunciate, ma incise da inchiostro indelebile nella memoria e nel cuore del Presidente e di tutti i calabresi: “Giustizia Presidente”.

Quale parole le persone hanno gridato dalla barca che si schiantava? Quante forte erano le imprecazioni? Quanto rumorose le preghiere? E quanto forte è il pianto di una madre che saluta il figlio dentro una bara? Quale silenzio, potrebbe coprire così tanta disperazione? Quanto rumore fa  l’abominevole dichiarazione del ministro dell’interno e il mutismo di Salvini? Molte volte il dolore viene coperto dal silenzio, e invece dovrebbe essere gridato, urlato. Dovrebbe causare un pianto collettivo, un fiume di lacrime e di dolore. Tutto dovrebbe servire a generare una nuova antropologia dell’umano, non basata più sulla ritualità devozionale e su i morti, ma sulla rivoluzione permanente per la vita, dentro una rivelazione che unisce il cielo e la terra. Senza che il linguaggio tecnico mercantile, investe i corpi come se fossero merce da ricollocare. Corpi, marchiati da un codice a barre fattosi parole. 

Il lutto e il silenzio non escludono la lotta, e la lotta per sua natura non è silenziosa. Anche nei momenti più tragici, le parole pronunciate in sottofondo sbattono e diventano: santa rabbia. Un po’ di quel tipo, che ha don Rosario di Botricello. Il Vangelo fa bruciare il sangue, e la verità che arde nelle carni non può far altro che far gridare: umanità, dalla bocca di chi può aprirla. 

Non parlano di silenzio nemmeno i cardinali, come fa Zuppi: “Dobbiamo partire dal dolore, e da questo che scaturisce una determinazione rinnovata capace di vedere le responsabilità e anche le omissioni che possono favorire tragedie come queste”. O ancora più rumorose sono le parole dell’arcivescovo di Palermo Corrado l’orefice, chiamando in causa direttamente il ministro dell’interno: “la responsabilità è nostra. Quel che è avvenuto a Cutro non è stato un incidente, bensì la naturale conseguenza delle politiche italiane ed europee di questi anni, la naturale conseguenza del modo in cui noi cittadini, noi cristiani, malgrado il continuo appello di Papa Francesco non abbiamo levato la nostra voce, non abbiamo fatto quel che era necessario fare girandoci dall’altra parte o rimanendo tiepidi e timorosi“. Per non parlare dei missionari Comboniani: “Noi famiglia comboniana italiana alziamo il nostro urlo di protesta davanti a questi orrori che continuano ad avvenire nel Mar Mediterraneo.“

Forse il silenzio più rumoroso lo si avverte proprio nelle meditazioni e nella preghiera. E anche se non si sentono le parole dalle orecchie, si scrivono dentro il libro del cuore e in un pugno alzato si trattiene tutta la rabbia e le urla di Dio. Gli olocausti offerti a Dio, oggi sono celebrati sugli altari dei media e dei social media. Nelle fotografie e nelle mimose riciclate buone per ogni tragedia, ci si potrebbe imbattere nel ritrovamento dei corpi che ancora mancano alla conta. Forse la stupida volontà di dare un numero a una bara bianca, potrebbe essere annomata, dall’ennesimo numero riaffiorato dal mare, l’otto di marzo del 2023. Sarebbe cosi devastante , che il silenzio devozionale sarebbe spazzato via.  E le urla dei familiari che ritroveranno il corpo sguarcerá di nuovo il silenzio istituzionalizzato da qualsiasi posto nel modo essi si trovino. Un pezzo di mare, diventato un cimitero, l’otto marzo prossimo diventerà il milite ignoto femminista del silenzio. Non può avere richiamato a questo il silenzio di Mattarella. 

Forse il prossimo otto marzo, dopo essere stato negli anni passati per la cgil Ara vasta centro – Catanzaro Crotone e Vibo Valentia ,  un giorno di cannibalismo politico, diventa dentro la quaresima un silenzio e un lutto svuotato di senso. Le donne della cgil Calabria dovrebbero imparare a pregare e a lottare, ma di più, fare rumore. E oggi quel rumore, grida: dimissioni. 

C’era Fede e Speranza

ma né pane, né carne 
non chiamate ladro chi deve rubare, 
per dare alle bocche, di cosa mangiare 
farina ci vuole 
e non solo bontà