Io non voglio entrare in polemica con il nostro parroco, don Angelo. Mi piacerebbe, al contrario, confrontarmi, ma non credo che ci sia la possibilità. Però, prima di esprimere le mie perplessità su alcuni suoi atteggiamenti e sul concetto che ha di comunità, voglio rammentare a tutti un episodio che ormai è scritto nella mia storia e nel rapporto che ho avuto con i preti che si sono susseguiti a Cenadi, in particolare con uno: don Vincenzo. Ce ne sarebbero tanti, ma per brevità ne rammento uno solo. Una volta non ero d’accordo su una particolare questione e avevo deciso di scrivere al vescovo. Ma prima di farlo, visto che i rapporti che avevo con lui erano di sincera amicizia, ne ho parlato con lui e gli ho fatto leggere la lettera che avevo scritto. All’inizio pensavo che si arrabbiasse e avevo timore di fargliela leggere, ma con mio stupore, una volta letta, non mi ha impedito di mandarla al Vescovo. Mi ha semplicemente detto che, se pensavo di essere nel giusto, avrei dovuto spedirla. E così ho fatto. Questo episodio non ha scalfito di un millimetro la nostra amicizia, anzi: siamo rimasti amici e abbiamo condiviso molte cose insieme.
Rammento le parole di papa Francesco quando, in una sua catechesi, dice di non indossare maschere, di dire quello che si pensa in faccia, di non truccarsi, ma di essere sinceri. A volte i migliori insegnamenti teologici non passano attraverso la lettura o la meditazione delle Scritture, ma dalla viva esperienza umana e dalle relazioni che si instaurano. E, anche se nell’immediato non ti fanno riflettere e non ti appaiono importanti, con il passare del tempo si rivelano veri insegnamenti di vita. In alcuni frangenti, le relazioni che hai avuto con le persone diventano veri e propri segni di evangelizzazione.
Io non sono un fervente cattolico, mi considero un cristiano radicale, ma non frequento la Chiesa come dovrei, come fanno tanti, anzi pochi, miei compaesani, perché, come ho scritto tante volte, la mia fede, per usare le parole di sant’Agostino nelle Confessioni: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova…», è stata anche per me una scoperta da adulto. Non per questo ne ero privo da giovane, quando la mia testa era piena di capelli, ma l’avevo sotterrata sotto una montagna di convinzioni idealistiche che non le permettevano di respirare. La soffocavo, la ricoprivo di mondanità.
Oggi mi considero uno scolaro permanente, un curioso che impara le cose giorno per giorno. A volte le mie convinzioni sono sbagliate, ma i testi che leggo e le riflessioni che ascolto sul Vangelo mi aiutano a cambiarle oppure a valorizzarle ancora di più. Con papa Francesco, ancora di più, ho scavato dentro di me per togliere tutta la terra che copriva la mia fede. Giorno dopo giorno, con la carta vetrata delle preghiere, ho cominciato a intravedere la scintilla luminosa, e la luce che avevo sepolto ha iniziato a farsi vedere. Non basta una vita intera per imparare e, se Dio stesso non mi avesse scelto, oggi non sarei mai riuscito a scorgere, dentro il mio cuore, il segno di quanto Dio mi voglia bene, con tutti i miei sbagli, tutte le mie mancanze e i miei difetti.
Non voglio dilungarmi e voglio arrivare al sodo della questione. Non credo che ai miei compaesani interessi tanto la mia conversione e quali fatti della mia vita l’abbiano resa possibile. Da un certo punto di vista, chi mi conosce veramente e sa di che pasta è fatto il mio cuore non dovrebbe stupirsi più di tanto, perché da sempre era iscritta nelle mie carni, ma io non sapevo leggerla.
Mi è dispiaciuto il richiamo che don Angelo mi ha fatto l’ultima volta che sono andato in chiesa, quando mi ha invitato ad avvicinarmi. Non ero all’ultimo banco e nemmeno distante dagli altri. Mi sono seduto vicino a mia zia, lasciando il posto che di solito occupo dall’altra parte, vicino alla statua di san Francesco d’Assisi e accanto al crocifisso. Forse è una stupida sensazione, ma guardare ogni tanto il volto di Francesco durante la messa o girarmi di lato per guardare Gesù mi aiuta a segnare nel mio cuore le parole del Vangelo.
A questo riguardo, debbo dire che l’amplificazione non aiuta, anzi, le parole non si comprendono bene e sono costretto, per seguire meglio le letture, a usare il cellulare. E se non ricordo male, il catechismo, per definire la religione cristiana, dice che non è la religione del libro, ma della Parola, che non è una parola scritta e muta, ma il Verbo incarnato e vivente. Anche se per me definire il cristianesimo una religione mi sta un po’ stretto. Ma scrivere di questo mi porterebbe lontano dal mio ragionamento.
Allora voglio stare dentro binari ben precisi e per questo mi aiuterò con il Vangelo, partendo da quello di Matteo (21,28-32). Ci sono periodi nella vita in cui hai l’impressione che i pubblicani e le prostitute siano davanti a te, oppure che siano su un altro versante rispetto a dove sei tu. Questo accade ogni volta che l’apparato delle convinzioni religiose, oppure una certa religiosità presente in ogni forma di esperienza di fede, soprattutto nelle istituzioni religiose, per come viene descritta nei versetti citati di Matteo, è solo di facciata, frutto di opportunismo, senza dare nessuna continuità alle parole dette né alcun rispetto agli impegni presi.
Cosa vuol dire essere comunità? Sedersi tutti ammassati nei banchi in chiesa, per poi essere lontani fuori dalla chiesa? Oppure sedersi agli ultimi posti, ma rimanendo con il proprio cuore rivolto là dove Gesù è presente: nel tabernacolo? A questo proposito rammento i versetti di Luca 18,10-14:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di quanto possiedo.” Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore.” Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». Di questi episodi è pieno il Vangelo: ogni credente è chiamato a testimoniare la propria fede non solo con le parole o con un atteggiamento legato ai soli obblighi pastorali.
A questo punto posso chiudere la mia riflessione dicendo che a me piace di più la Chiesa di papa Francesco, quella che lui considera “in uscita”. Una tenda da campo installata dove serve.
Io non credo che si possa definire comunità quella che non si accorge dei nostri anziani, quando muoiono soli in casa. Che si deresponsabilizza dicendo: «Ma io cosa potevo fare?». Tutti siamo responsabili, io per primo, quando accadono queste cose in un paese di appena 400 anime, per di più anziani. Le famiglie devono essere aiutate dentro una logica di solidarietà e non di indifferenza. Aiutate perché solo così si può condensare nei fatti una vera comunità cristiana. Nessuno si può sentire cristiano se non si accorge delle difficoltà degli altri, nemmeno se veste un abito da prete o da sindaco devoto.
Dio stesso non vuole una comunità fatta di servi che obbediscono, ma di figli e figlie che, pur essendogli lontani, quando ritornano, e lui li vede da lontano, non aspetta che siano loro a corrergli incontro, ma è lui che: «Mentre era ancora lontano, suo padre lo vide e fu commosso fino alle viscere. Correndo, gli si gettò al collo e lo baciò.» Luca 15,20.
“Non basta venire a messa la domenica, non basta chiamarsi cattolici, non basta portare il bambino a battezzare. Non bastano le apparenze, Dio non si appaga delle apparenze. Dio vuole il vestito della giustizia. Dio vuole i goi cristiani rivestiti di amore.” sant’Oscar Arnulfo Romero