L’autonomia differenziata passando da Lucano e finendo a Scalese. 

Potremmo mai sentir dire a Salvini o la Meloni di essere antifascisti?  Allo stesso modo potremmo mai sentire la Santanchè parlare dei diritti dei lavoratori oppure Toti di legalità? Il diavolo potrebbe mai parlar bene del paradiso? O restando sempre in tema trascendentale, lo scomunicato Viganò,  potrebbe mai apprezzare Papa Francesco?  La risposta è certamente no. Mai e poi mai potremmo sentire parole di verità e di giustizia sociale o diritti, per coloro i quali, dentro questo liquame di ingiustizie ed eresie, galleggiano e rimangono sempre a galla.

Queste contraddizioni, al di qua del pollino li possiamo intravedere, scorgere, se pur con finalità e posizioni diverse in alcuni eventi. Uno di questi eventi sono le iniziative che la cgil area vasta centro, sotto la direzione politica del suo segretario generale Enzo Scalese propone contro l’autonomia differenziata. Nello specifico mi riferisco a quella che si terrà a Vibo Valentia nei prossimi giorni.  In quella sede si concentrerà una contraddizione che per molti aspetti è connaturata con gli stessi personaggi citati sopra. Diritti dei lavoratori, solidarietà, giustizia sociale, migranti, onestà, tutti argomenti che possono essere riscontrati nell’ossatura politica di tutti gli invitati all’iniziativa, ma sono nettamente in contraddizione con quella del Segretario Scalese. Come potrebbe mai coesistere nella stessa stanza Lucano con Scalese. Come potrebbe mai interagire Lucano, che al legalitarismo burocratico contrappone la giustizia e Scalese che alla giustizia contrappone il legalitarismo burocratico. Sono certo che lo stesso Scalese se si fosse trovato al posto di Lucano, nella vicenda nota del rilascio della carta d’identità a una migrante per evitargli di finire nel lager di san Ferdinando, gli avrebbe detto: la legge non me lo consente, devi morire. 

Un’altra caratteristica che salta agli occhi nelle iniziative che propone Scalese, è la bassissima partecipazione, sia di lavoratori che di cittadini. E questo non è un elemento da poco, perché segna l’assenza di radicamento sindacale nel territorio di competenza della cgil area vasta centro. Non è così ad esempio a Cosenza, per citare un altro territorio calabrese, dove della partecipazione e la coesione territoriale con altre realtà sociali, ne ha fatto un modello per una politica di prossimità e non da salotto, come succede per il territorio rappresentato da Scalese e dalla sua segreteria svuotata ormai di una incisiva identità politica.

Per chi voglia capire le storture dell’autonomia differenziata, io gli propongo di leggere il documento prodotto dai vescovi, e leggersi le dichiarazioni del cardinale Zuppi. Meglio di me sapranno illustrare i danni che questa legge porterà al sud e la competizione al ribasso che certamente si registrerà in materia di lavoro.  Uno spezzatino che colpirà le regioni più disagiate come la nostra, a vantaggio di quelle più ricche. 

Se ci soffermiamo sulla contrattazione, potremmo immaginare un depotenziamento dei contratti nazionali, e di conseguenza un’applicazione di fatto, di gabbie salariali. 

Non possiamo non richiamare le storture in alcuni regioni, se non in tutte, dell’introduzione del Welfare aziendale, che già oggi spinge i lavoratori verso la sanità privata per usufruire di alcune prestazioni sanitarie. Senza una politica sanitaria omogenea in tutte le regioni, questo meccanismo andrà con più forza a ingrassare il privato, depauperando il sistema sanitario nazionale. Con l’introduzione dell’autonomia differenziata, tutto questo si acutizzerà, e magari avremmo contratti di lavoro convenzionati con i baroni della sanità calabrese.  Persino i contratti di secondo livello, quasi assenti nel nostro territorio, quelle poche volte che vengono stipulati, invece di proiettarsi verso la riduzione d’orario di lavoro, e conseguentemente l’aumento della manodopera impiegata, si consolidano drogando la contrattazione di secondo livello con bonus annuali, e magari il panettone a Natale o regalie alle feste comandate. Non voglio pensare come i padroni potranno usare questa forma di contrattazione, perché già adesso in alcuni casi, abbiamo anche dei grossi imprenditori, che ritengono inutile la sindacalizzazione dei loro lavoratori perché la loro azienda la definiscono come una grossa famiglia. Concetto che sottintende un capo famiglia, escludendo la partecipazione e l’eventuale conflitto, rifacendosi molto spesso al padre padrone descritto nella letteratura di Verga. 

L’autonomia differenziata produrrà un solo e unico obiettivo: frammentare, dividere i lavoratori e impedire eventuali conflitti. Come in alcune realtà già oggi succede. In questo quadro quale lavoratore, magari più garantito di un altro, potrebbe essere solidale  con chi in un’altra regione è meno tutelato. Quale lavoratore si batterà insieme agli altri lavoratori, se già oggi in molte realtà il damping contrattuale nella stessa azienda, è usato come ricatto per abbassare piano piano le tutele di tutti.

Un altro aspetto che l’autonomia differenziata causerà, sarà una migrazione tra regioni, e lo svuotamento della forza lavoro dalle regioni povere verso quelle più ricche. Oggi è già così, con l’autonomia differenziata sarà amplificata ai massimi livelli.  

Non bisogna mai dimenticare, che la strada è stata aperta non da Salvini né da Calderoli, ma dalla sinistra con la modifica del titolo quinto della costituzione. Oggi come allora la riforma ricade dentro un ricatto elettorale tra la Meloni e Salvini. 

Io in verità non sono contro un’autonomia, che la stessa costituzione, anche prima della sua modifica del titolo V richiama, ma la mia idea, si basa su un regionalismo solidale, dentro una unità nazionale. Qualcuno potrebbe eccepire che quando saranno istituiti i LEP, tutto sarà compensato, ma in verità e per come è strutturata la riforma di Calderoli, la casa comune degli italiani non è costruita dal basso, dalle fondamenta, per arrivare ai piani successivi, ma al contrario si parte dal tetto. Questa riforma scellerata, non ha una verticalizzazione dal basso verso l’alto. Dai territori allo stato centrale, ma calata dall’alto e subita da chi sta in basso. Un altro aspetto molto più pericoloso è la desertificazione delle realtà locali piccole, come i nostri comuni. Con la certificazione della spesa storica, non solo si andrebbero a cancellare le potenzialità dei nostri territori o le realtà montane, ma si escluderebbe un futuro possibile, defraudando culture e ricchezze territoriali a vantaggio dei grossi centri.  Se volessimo contrapporre una politica che sviluppi i nostri territori interni, i nostri  piccoli paesi ormai chinati allo spopolamento, dovremmo diffondere capillarmente il senso politico e sociologico nonché antropologico del testo di Vito Teti,  La Restanza, e la politica di accoglienza di Lucano. Questi due aspetti se veicolati dalla politica, potrebbero essere le uniche vie d’uscita, per una  rinascita sociale dei nostri comuni. 

E pur vero che nei passati anni, regioni come il Veneto la Lombardia e l’Emilia Romagna, hanno indetto referendum per richiedere la loro autonomia. E in quelle occasioni la politica ma anche il sindacato ha lasciato fare, senza opporsi, anzi in alcune regioni come l’Emilia Romagna questa ipotesi non era per niente peregrina. Io non sono un politico attento come quelli che saranno presenti all’iniziativa, ma se avessero cominciato da là a contrastare le politiche secessioniste della lega, e le spinte autonomiste di alcune regioni, forse oggi non ci troveremo in questa difficile situazione. Se la sinistra avesse un modello suo di autonomia e si fosse spesa per contrapporlo alla scellerata secessione di ieri oggi autonomia differenziata, forse, la gente non si troverebbe a essere solo contro, ma avrebbe un’alternativa da sostenere. 

Essere contro all’autonomia differenziata di Calderoli, senza mettere in campo una vera alternativa non è mai una strategia giusta per avere successo. Non voglio richiamare Gramsci, perché nel contesto politico come il nostro è quasi anacronistico. Lui sosteneva che la politica del se è una prova dell’incapacità a comprendere la storia e pertanto anche una prova della incapacità a fare la storia. Noi invece siamo pieni della politica del se: se tizio non avesse detto, se Caio non avesse fatto, se il gruppo X non avesse sostenuto questa verità sacrosanta….per poi finire nella formula del male minore o del meno peggio, che assume la forma di un processo di adattamento a un movimento regressivo. E su questo la politica di sinistra dovrebbe riflettere parecchio. 

In alternativa a Gramsci, potremmo prendere spunto dalla dottrina sociale della chiesa, che con Papa Francesco sta avendo oggi il suo più alto rappresentante. Il discorso fatto a Trieste, potrebbe essere un bignami sia per Scalese, che per molti politici e amministratori che alla partecipazione, necessaria per qualsivoglia riforma, contrappongono loro stessi e i loro appetiti elettorali. E senza fare nomi, nell’incontro di Vibo Valentia, qualcuno c’è. 

Finisco con una citazione Papa Francesco nel discorso a Trieste: “non è il voto del popolo solamente, ma esige che si creino le condizioni perché tutti si possano esprimere e possano partecipare. E la partecipazione non si improvvisa: si impara da ragazzi, da giovani, e va “allenata”, anche al senso critico rispetto alle tentazioni ideologiche e populistiche.” Non è una menzogna né un dogma di fede affermare, che il segretario generale della cgil Scalese, alla partecipazione preferisce le cordate di potere, i salotti e le iniziative alla Ruggero Pegna, le uniche utili a mantenerlo stabile al suo posto. Quello che mi rammarica di più, è che tutti coloro, che lo lasciano fare, o sono complici oppure beneficiano di questo sistema.