Il CoViD-19 tra centro e periferia.
di Stefano Montesano
Durante le fasi inziali dell’epidemia, nei vari dibattiti televisivi – definibili, nella versione italiana, come veri e propri “pastoni”, catene di montaggio mediatico nelle quali si preconfezionano posizioni e opinioni più che altro autoreferenziali – così come in numerosi articoli e saggi pubblicati sulle principali testate giornalistiche italiane, si era d’accordo su di un punto: questo virus, come ogni virus che presenta tali caratteristiche, può essere catalogabile per una caratteristica alquanto peculiare: è democratico. Tale peculiarità è di semplice intuizione: il virus che può colpire chiunque, ovunque, senza preavviso. Qualche settimana pandemica, nazionale, europea e globale, per capire, senza nessun se e senza alcun ma, che così non è: il virus, democratico (forse) nella sua genesi eziologica, scatena, invece, tutti i (possibili) effetti nefasti del suo essere profondamente anti democratico. Il passaggio dalla caratura democratica del virus a quella antidemocratica, si concretizza nelle periferie del mondo, dove casa, lavoro e scuola, costituiscono un trinomio foriero di incertezze e precarietà, nel quale si accumula, persino con indomita violenza, tutta l’intrinseca ineguaglianza del capitale pandemico. In questo senso, il virus ha reso persino visibili gli invisibili, nelle carceri così come nelle piane di Gioia Tauro; ma ha reso visibili anche i “poco visibili” residenti nelle periferie delle grandi città: dai Parioli a San Basilio, infatti, la curva sintomatologica socio-economica del virus non ha (mai) avuto gli stessi effetti. Ed allora, al cielo stellato di alcune città, all’assenza di smog, alla (sempre attesa) ritrovata bellezza naturale di luoghi e posti normalmente usurati dai flussi consumistici urbani, ha fatto, da contraltare l’emersione drammaticamente cristallina di quella normalità cronica e strutturale del mondo sommerso. Non a caso, dopo qualche settimana di epidemia e di conseguente assestamento sociale e familiare, si respirava una percettibile voglia di rivalsa da parte di quel mondo, un timidissimo segnale di emersione, volto a evidenziare alle classi dominanti (per dirla a la Marx) che se un virus così condizionante oramai esiste, allora un tale condizionamento diventa, verosimilmente, più condizionante per alcuni e molto meno per gli altri. In sostanza, ci siamo resi conto, dopo qualche mese di pandemia, che il “compagno CoVid”, come qualcuno lo ha appellato, tanto “compagno”, forse, non è. Oppure, in realtà, è “compagno” nella parte in cui catalizza la percezione delle povertà e delle sofferenze, nella parte in cui realizza il disegno realistico del mondo di chi deve necessariamente chiedere, per poter esistere. E, probabilmente, è ancor più “compagno”, nel senso che evidenzia che proprio l’avere, è una condizione fortemente rassicurante anche nella crisi epidemica, nella quale l’avere e l’esistere tendono a coincidere senza soluzione di continuità. Se facciamo un salto ai Parioli, allora, potremmo notare che avere 60/70 mq per persona, significa vivere (quasi) normalmente la pandemia; qualche chilometro più in là, a Fogaccia, Santa Palomba o zone limitrofe, noteremo che il non avere quei metri quadri, può significare, in un contesto di diffuso disagio sociale ed economico, un mesto non vivere, se non addirittura un morire, se pensiamo alla violenza contagiante del Sars-Cov 2. I metri quadrati, però, rappresentano, più che altro, un riferimento prettamente simbolico, espressione di quella condizione periferica in cui, nonostante tutto, è racchiuso il senso dello stare al e nel mondo, una visione così piena e così povera allo stesso tempo, di pasoliniana memoria. Di là degli appellativi che possono darsi o meno al virus, c’è da constatare come l’epidemia che stiamo vivendo riesce nell’intento di rendere ancora più nitide le diseguaglianze sociali ed economiche che caratterizzano il modo d’essere della nostra società. Una considerazione certamente banale, ma che è necessario fare, a mo’ di premessa, su quanto sta accadendo. Se prima della pandemia erano gli immigrati a dover lottare per rifuggire da una condizione di miserevole esistenza, oggi lo sono ancor di più. E lo sono anche se con l’ultimo decreto legge approvato (cd. decreto “rilancio”) è prevista la regolarizzazione temporanea per circa duecentomila immigrati impegnati nel settore dell’agricoltura. Una buona notizia, messa in risalto, peraltro, dall’enfasi emotiva del Ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova che, durante la presentazione del decreto a fianco del Presidente del Consiglio, Conte, il Ministro dell’economia, Gualtieri, dello Sviluppo Economico, Patuanelli e della Salute, Roberto Speranza, illustrando le misure adottate per la regolarizzazione dei migranti-braccianti, ha affermato, commossa, che “lo Stato è più forte del caporalato” , e che “gli invisibili saranno meno invisibili”. Parole e azioni certamente apprezzabili, in un Paese in cui bisogna aspettare una pandemia senza precedenti per consentire a dei lavoratori, benché nigeriani, somali, gambiani, maliani o di altri stati africani o asiatici, pur sempre lavoratori, di ottenere quelle minime condizioni giuridiche per poter esercitare i propri diritti connessi a tale status. Un passo verso la sospirata civiltà, si potrebbe sostenere. Ma, a ben guardare, così non è. La regolarizzazione temporanea di circa duecentomila migranti-braccianti, con determinati requisiti “legali” di partenza (scadenza del permesso al 31 ottobre 2019, per sottolineare una condizione su tutte), è la conferma di quanto l’approccio (politico) al tema, tanto a livello nazionale, che a livello euro-comunitario, sia irrimediabilmente compromesso da una visione selettiva e parzializzante, sulla scia di un razzismo causale che orienta le scelte normative in relazione ad un principio di utilità socio-economica e non ai valori di uguaglianza e solidarietà sui quali la nostra Carta costituzionale e – seppur in forma diversa – i Trattati dell’Unione europea, sarebbero formalmente fondati o sui quali, sostanzialmente, dovrebbero basarsi le azioni politiche che vanno ad incidere sulla regolamentazione della materia de quo. Ed allora, il quadro che ci offre il CoVid-19, relativamente al tema di cui si sta discorrendo, appare emblematicamente espressivo di un indirizzo necropolitico, come direbbe Achille Mbembe, vale a dire il prodotto dell’intreccio della sovranità moderna occidentale con il razzismo coloniale inteso come sistema di sfruttamento globale, una gestione (bio-politica ed economia) del vivente che, anche nei contesti delle democrazie occidentali, cade nel tugurio giuridico dell’emergenzialità con tutto ciò che ne deriva. I riscontri “pratici” di tale indirizzo, non hanno tardato a manifestarsi. In primis, con la chiusura dei porti, disposta tramite decreto interministeriale, mediante il quale si è stabilito che i porti italiani non avrebbero potuto assicurare i necessari requisiti per la classificazione di Place of safety (porto sicuro) secondo quanto previsto dalla Convenzione di Amburgo, ma per i soli casi di soccorso effettuati da parte di autorità navali straniere. Un provvedimento alquanto sproporzionato e irragionevole, se si pensa alla circostanza che vi è un obbligo internazionale di soccorrere chi è in emergenza e rischia la propria vita; ma anche irrazionale, se si pensa che vi è una diversa considerazione della sicurezza del porto se a prestare soccorso sia una nave italiana oppure straniera: per chi è stato salvato da una nave italiana il porto è sicuro; per chi è stato recuperato in mare da una ONG battente bandiera straniera, il porto non può considerarsi sicuro. Ennesima prova dell’anti-democraticità del virus, evidentemente. Il tutto, tra l’altro, si inserisce in un tessuto (carente e inadeguato) politico comunitario, nel quale i vertici delle istituzioni comunitarie discutono nuove strategie per far fronte alle gestione dei migranti, “spostando” le proprie frontiere direttamente nei paesi di provenienza e immaginando canali di ingresso legali e relative politiche di sostegno all’integrazione, soltanto per i migranti altamente qualificati, a conferma del fatto che non di persone si tratta, ma di processi selettivi di corpi migranti. Un barlume di (dovuta) ragionevolezza, però, è arrivato dal Ministero dell’Interno, che con circolare datata 1 aprile e indirizzata ai Prefetti, ha imposto il divieto di espulsione dei rifugiati e dei richiedenti asilo che non hanno titolo a restare nei centri di accoglienza; una misura, quella disposta dal Viminale, adottata per prevenire la diffusione del coronavirus e, al contempo, assicurare controlli e assistenza sanitaria anche ai migranti. E tuttavia, restano le tendopoli a Rosarno come a Taurianova, dove centinaia di migranti vivono in condizioni disumane e dove il rischio di diffusione dell’epidemia resta particolarmente alto. Così come resta particolarmente alto il rischio epidemico a Fondo Fucile (Messina) e in tanti altri luoghi – soprattutto nel meridione – dove migliaia di famiglie vivono assiepate nella popolarità di quei quartieri lasciati al loro miserevole destino. Anche il CoVid-19, dunque, ha ben distinto il centro e la periferia, mettendo in risalto, ancora una volta, che i mali aggiunti di questa pandemia arrivano da lontano, da un trentennio di strappi e di conflittualità istituzionale diffusa a più livelli, una conflittualità che non si è dispiegata, in tutta la sua portata, nei mesi tra i più difficili della storia repubblicana. A ciò si aggiunge il taglio scellerato della spesa sociale, che ha prodotto, tra le altre cose, lo smantellamento della sanità pubblica e, indirettamente, il fiorire di quella privata: si è passati dalla sanità per chi è, alla sanità per chi ha. Il leitmotiv, anche in tempi di pandemia, resta drammaticamente lo stesso. Forse non avremmo mai pensato di vedere mezzi militari in marcia, con al loro interno centinaia di bare. Forse non avremmo mai pensato di non poter salutare, omaggiare i nostri cari caduti nella morsa del virus. Forse non avremmo mai pensato di vedere volti scavati da mascherine. Forse non avremmo mai pensato di pendere dalle labbra di virologi, epidemiologi e scienziati della prima e dell’ultima ora. Ma che quella normalità, temporaneamente perduta, non fosse poi così tanto normale, sembrava dato accertato, quantomeno per alcuni aspetti sociali, politici ed economici. Il virus non ha fatto altro che sbatterci in maniera violenta la realtà per quella che realmente è, nulla di più. Al netto dell’imprevedibilità della curva epidemiologica, al netto delle scarse informazioni scientifiche, al netto dell’impreparazione “sistemica” di qualsiasi Stato coinvolto, tutti fattori che hanno certamente contribuito a rendere il virus quello che (forse, con tutti i dubbi del caso) conosciamo, il resto è storia dei nostri giorni. Dei nostri giorni “normali”. La “normalità” delle case dormitorio, messa ben in evidenza da Salvatore Settis , che propone un’idea diversa di progettazione futura deli luoghi in cui vivere, in un contesto di ripartenza solidale sostenibile; la normalità dei pochi posti letto nei reparti di terapia intensiva e della disumana conseguenza di decidere , preventivamente, a chi prestare le cure intensive: un diritto fondamentale, come quello alla salute (art. 32 Cost.), riconosciuto a tutti, senza distinzioni di età o di patologie pregresse; la normalità della mancanza di sicurezza nei luoghi di lavoro; la normalità delle periferie delle grandi città, dove la didattica a distanza non è mai stata sperimentata – per mancanza di PC, Wi-Fi e strumenti (ancora) non per tutti – con conseguente negazione del diritto alla scuola per tantissimi giovani; la normalità nel destinare gli anziani al loro ineluttabile destino, come i drammi delle RSA ci hanno ampiamente e tragicamente dimostrato; tante, troppe, normalità, che questo virus ha chiaramente ben impresso nel nostro stare al mondo, probabilmente per il resto delle nostre vite. Di guerra si tratta? No, nessuna guerra. Almeno, non una guerra contro qualcosa. Perché auspicare un ritorno alla normalità se proprio quella stessa normalità ci ha condotto, almeno per gli aspetti considerati, a quello che abbiamo oggi? Forse questa pandemia dovrebbe essere l’occasione propizia per dichiarare guerra alle diseguaglianze, alle ingiustizie sociali, alle povertà del e nel mondo. Insomma, se di guerra si deve trattare, allora che sia una guerra per qualcosa, qualcosa di nuovo, di giusto, una rifondazione paradigmatica delle strutture sociali ed economiche, il capovolgimento di un modello liberista selvaggio che ha portato alla sovversione dell’habitat sociale dell’uomo. Qualcuno ha osservato come l’aspetto paradossale di questo virus sia dato dalla circostanza che “si mette in una condizione di relativa eguaglianza”, poiché “riscatterebbe dalla nostra amnesia il concetto di genere umano e la nozione di bene comune”, che costituiscono i “fili etici più efficaci da cui cominciare a tessere un modo di vita diverso a un’altra sensibilità”. E non par dubbio che una differente rivalutazione del pensare e dell’agire umano, debba necessariamente passare per una re-invenzione solidale dello Stato e delle sue istituzioni. In questa fase epidemica, paradossalmente, tutto è rimasto com’era: gli ultimi, sui gommoni o nelle tendopoli, nelle periferie o ai bordi delle strade, gli emarginati, i poveri, sono esattamente lì dove li avevamo lasciati, una platea ancora più numerosa vista la grave crisi economica causata dall’emergenza. Le premesse, tuttavia, non sono le migliori, come si anticipava precedentemente. Pensiamo di poter riabilitare la politica, salutando con apprezzamento l’introduzione, nel nostro ordinamento, di diritti stagionali funzionali al capitale? Pensiamo di poter ripartire da una normalità apocrifa, che ci ha condotto a prendere coscienza delle infinite anomalie del nostro sistema di welfare? Non siamo all’anno zero. Ma può essere l’anno giusto.