Resurrezione

Oggetto: alle soglie dei miei primi 50 anni d’antifascista licenziato.

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Mentre i fascisti assaltano la sede della CGIL a Roma, l’indifferenza burocratica dei dirigenti della CGIL AVC CZ KR VV cancella i diritti di un sindacalista antifascista licenziandolo. Ho sempre pensato al corpo dei sindacalisti come a una Camera del Lavoro itinerante, un presidio di legalità e di giustizia sociale, un presidio dell’antifascismo, contro il razzismo e la disumanità. In questo senso l’ho declinata nel mio agire sindacale. Non ho anteposto mai i miei interessi a quelli dell’organizzazione e per tale ragione credo di meritare il rispetto umano, non quello burocratico.

Non avrei mai pensato che, avvicinandomi ai miei 50 anni, sarei stato centrifugato dalla burocrazia dell’organizzazione. Anzi, segnatamente all’uso della burocrazia, dovrei dire che nel mio caso il giocattolo burocratico messo in campo è stato mantenuto tale impropriamente per svariati anni, proprio per deresponsabilizzarsi. Avere un alibi, una scusa per appellarsi e non sentirsi il peso morale di comunicare un licenziamento illegittimo. Pensavo di essere parte di una comunità di uomini, donne e sindacalisti che avessero prima di tutto, nella loro etica, un atteggiamento che prescindesse dalla burocrazia. Pensavo d’essere protetto dall’onestà intellettuale di compagni che mai avrebbero acconsentito al mio licenziamento per come è stato fatto. Pensavo che bastasse questo a non finire stritolato nell’indifferenza. Pensavo che la solidarietà, tanto declinata nei nostri documenti, fosse vera e riposta su tutti. Invece mi sono accorto che ha lo sterzo: si indirizza come meglio crede colui che la governa. L’ho scritto in altre mie note, ma io continuo a pensare che il devozionismo dentro la nostra realtà sindacale sia l’atteggiamento che dà più sicurezza. È paradossale che dentro la nostra organizzazione, la gestione padronale azzittisca tutti, facendo regredire l’intera organizzazione nella più feroce indifferenza.

“Vidi u muartu passara e dumandi cu esta”. I detti popolari riescono meglio della letteratura o delle citazioni intellettuali a definire l’atteggiamento di molti. “U mala chi si fhannu l’operai non du fhacia u patruna”. Potrei continuare all’infinito. Mi verrebbe più facile richiamare il Vangelo per definire alcuni atteggiamenti e circoscriverli nella loro essenzialità. Potrei pure richiamare qualche versetto del Corano per farmi aiutare dalla sua potente giustizia, considerata virtù per ogni credente. Potrei usare le parole di alcuni grandi pensatori. Potrei farmi aiutare dalle parole di Di Vittorio o di tanti altri sindacalisti le cui frasi campeggiano come monito nei quadri attaccati sui muri delle diverse Camere del Lavoro. Ma anche per questi ultimi sarebbe inutile. Confermano la regola secondo la quale, se vuoi nascondere una cosa, basta metterla in bella vista.

Non userò parole scritte da altri. Potrei persino usare le schede relative al documento d’organizzazione posto in discussione in questi giorni. La parola solidarietà è contenuta nel testo quattro volte. La parola burocrazia una sola volta, ma in negativo. Proverò ad entrare nel dettaglio quando si convocherà la prossima assemblea organizzativa della CGIL AVC. Mi soddisfa l’impostazione che si è voluto dare. Anche le proposte della Fiom che ho letto mi soddisfano. Ma una cosa sono le parole e i documenti, un’altra cosa è la realtà che vogliono cambiare. E se avrete la pazienza di leggere tutto, capirete quanto le parole e i propositi organizzativi della CGIL AVC siano come il diavolo immerso nell’acqua santa. Userò le mie parole per dare senso a tutto quello che mi sta succedendo.

Il 15 di ottobre sarà l’ultimo giorno di cassa integrazione, dal 16 sarò disoccupato. Se volete sapere come è stato possibile, chiedeteglielo al segretario generale della CGIL dell’AREA VASTA CENTRO, il compagno Enzo Scalese. Da quando ho ricevuto la lettera di licenziamento, subito contestata, ho richiesto, per come è normato dal regolamento del personale, un incontro per definire la mia situazione. Nessuna risposta.

Alcuni compagni componenti del comitato direttivo della CGIL AVC, venuti a sapere del mio licenziamento, hanno chiesto spiegazioni al segretario generale. E per questo li ringrazio. Altri compagni sono stati interessati, ma nessuno, sia a livello regionale che nazionale, ha mai risposto alle mie lettere. Quello che è di sicuro certificato è il passarsi delle responsabilità da un dirigente all’altro. In politica la responsabilità si acquisisce con la carica che si ricopre. Nel mio caso, chi ha la responsabilità non se la vuole prendere, ma, come in una partita a carte, passa la mano.

Un comune lavoratore ha il suo CCNL a cui aggrapparsi per difendere i vari soprusi che subisce. Se non ce la fa da solo, chiede aiuto al sindacato. Nel nostro caso, essendo dentro una confederazione sindacale, dentro la CGIL, il regolamento del personale diventa il nostro CCNL. Così è stato definito nella lettera di licenziamento. Nel nostro caso, non c’è bisogno in teoria del sindacato che mi difenda, perché ci dovrebbero essere nei vari regolamenti, statuti e codici etici di recente approvazione tutti gli strumenti per poterlo fare. Certo, sulla carta ci sono. Ma restano carta inchiostrata da eludere e ignorare. Nel mio caso sono diventati aria fritta, ripassata nelle diverse padelle sindacali. Le regole valgono per gli altri quando devono essere usate contro. Quando servono per poter difendere le proprie prerogative e i propri diritti, non valgono più. Diventano inutili e inservibili.

Si lascia il malcapitato appeso al collo per mesi, senza che nessuno si prenda la responsabilità di serrare la corda o di scioglierla definitivamente. Al contrario, dentro questa attesa, si strofina la corda con il petrolio o lo strutto. A volte anche olio di palma. Tutti prodotti scivolosi come l’infamia che passa di bocca in bocca per decostruire l’integrità morale e intellettuale del mio corpo, lasciato appeso alla corda di un licenziamento illegittimo. Bugie e narrative infamanti sul mio conto sono le gambe del piedistallo che mi tiene sollevato in agonia nei vari corridoi sindacali. Tutto dentro una burocrazia sindacale senza anima. Si attende un passo falso, mentre il tempo inesorabilmente passa. Un’istintiva reazione che possa essere ritorta contro di me. Ormai sono diventato, agli occhi di chi vuole farmi male, un coacervo accumulo di pregiudizi.

Desidererei che chiunque avesse avuto a che fare con i pregiudizi sul mio conto, prima di farsi una sua idea, mi ascoltasse di persona. Desidererei che i miei trascorsi sindacali, il mio lavoro, il mio impegno e la mia onestà fossero presi in considerazione. Desidererei che tutto il mio trascorso sindacale fosse contestualizzato dentro avvenimenti che hanno colpito persone con carne, anima e sentimenti, non uno scarto burocratico da cestinare prima possibile. Se ricostruisco tutto il mio percorso politico dentro la CGIL e nella FIOM, penso che quello che mi sta succedendo sia più una sorta di ritorsione politica. Una cordata di pensiero che spinge il mio allontanamento definitivo dall’organizzazione. È più facile decifrare tutti i segni dell’immagine del quadro della Madonna di Guadalupe che tutti i risvolti che possono essere dedotti, interpretati e applicati sia dal regolamento del personale che dallo statuto e dal codice etico, nonché dal comportamento delle persone, ma soprattutto dalle zizzanie.

Non voglio riscrivere né il mio trascorso sindacale né elencare norme e regolamenti che sono stati violati in riferimento al mio licenziamento. Conosco le regole della CGIL. È mio dovere conoscerle, perché non potrei mai difendere l’organizzazione se non le conoscessi. So come deve essere declinata la democrazia nelle varie istanze dell’organizzazione. Conosco il regolamento che dovrebbe regolamentare tutti i rapporti di lavoro dentro la confederazione e in tutte le sue diramazioni. Uso il condizionale perché, partendo da me, non so a quanti compagni o lavoratori impiegati nelle varie diramazioni dell’organizzazione venga correttamente applicato.

Nel mio caso, niente di quello che c’è scritto ha regolamentato il mio rapporto di lavoro. Per polverizzare qualsivoglia narrazione burocratica, basta pronunciare due parole soltanto: clausole sociali. Dello stesso tipo di quelle che vengono inserite nei diversi CCNL. Dentro queste due parole si condensa il diritto di un lavoratore a transitare, se necessario, da una società a un’altra in qualsivoglia processo amministrativo e di riordino societario. Si chiamano clausole perché non possono essere eluse. E sociali, perché non possono essere usate per discriminare i lavoratori, magari mettendoli uno contro l’altro. Se le clausole sociali avessero funzionato anche per me, oggi io sarei stato contrattualizzato con l’ALPAA regionale, già dal 2015. Così come è avvenuto per tutti gli altri compagni che lavoravano nelle ALPAA territoriali.

Naturalmente, questo passaggio era un atto amministrativo. Non serviva trovare accordi con il lavoratore, e non è stato mai fatto. Ma se eventualmente qualcuno avesse avuto l’arroganza di propormi qualche accordo che azzerasse i miei diritti maturati, allora forse, per questo, ci voleva l’accordo del lavoratore. Anche se sappiamo tutti che gli accordi che trattano di diritti indisponibili sono inefficaci.

Voglio ricordare che, nel frattempo, io ero stato distaccato alla FP: mi occupavo degli spazzini. Questo ultimo distacco sindacale non impediva il transito della mia posizione alla struttura regionale dell’ALPAA, ma si è scelto di mantenere aperta la partita IVA dell’ALPA Catanzaro fino ad oggi. Giustappunto 60 giorni dopo il periodo di preavviso, cioè il 15 ottobre 2021, dopo circa 6 anni dalla delibera con la quale si scioglieva l’ALPA di Catanzaro. Non hanno aspettato nemmeno che rientrassi dalla cassa integrazione. La pandemia è stata l’occasione migliore per attivare una procedura burocratica che, a mio parere da sindacalista, è volgare e offensiva, che non rispetta la dignità delle persone e le tratta come scarto.

Se i fondi finanziari licenziano i loro operai con un’email il giorno prima, se altri lavoratori vengono licenziati con un messaggino, io vengo licenziato usando un giocattolo burocratico indebitamente mantenuto. Mi chiedo: che differenza c’è con i primi?

Quello che so di certo è che c’è un accordo firmato dal compagno Enzo Scalese, allora segretario organizzativo, dal segretario della Flai, il compagno Giovanni Amendola, e dai responsabili dell’ALPAA regionale e territoriale, nella persona della compagna Annalisa Crupi e di Ercole Mete. Proprio su questo mi voglio soffermare: sul verbale d’accordo sindacale. In verità, per correttezza, lo stesso accordo doveva essere richiamato nella lettera di licenziamento, ma non è stato fatto. A mio avviso, di proposito. In quell’accordo tutto viene chiarito. Ma naturalmente anche l’accordo viene considerato un atto burocratico, tenuto fuori dalle procedure, perché sarebbe imbarazzante per un segretario generale della CGIL, ieri di Catanzaro, oggi dell’Area Vasta Centro Catanzaro-Crotone-Vibo Valentia.

Dovrebbe decidere lui delle mie sorti. Dovrebbe scrivermi una nota e prendersi la sua responsabilità. Posso accettare persino il licenziamento, ma che sia sottoscritto anche dal segretario della CGIL AVC. Lui stesso deve fare i conti con la propria coscienza e la sua firma, prendersi la responsabilità del ruolo che ricopre. Questo giocare a nascondino non è un comportamento consono a un Segretario Generale della CGIL.

A me, vecchi sindacalisti mi hanno sempre detto che è facile sottoscrivere accordi, ma quello che è difficile è farli rispettare. Nel mio caso dobbiamo registrare soltanto la superficialità e la facilità con cui è stato scritto. Le firme delle persone non valgono niente. Mi chiedo se vale la stessa cosa quando sono i lavoratori a essere tutelati dagli accordi che sottoscrivono gli stessi che hanno sottoscritto il mio. Come lo potremmo definire, quell’accordo, se non carta per uso igienico?

Lo stesso accordo definisce i miei transiti dall’ALPAA alla FP alla CGIL. Quello più increscioso e omesso dal verbale è stato quello che ho avuto alla FIOM. Dovevo essere persino contrattualizzato alla FIOM AVC, ma tutti sanno come è andata a finire. Naturalmente tralascio il ruolo da RLST. Forse tra tutti, quest’ultimo incarico mi fa sentire un disonesto, perché, a fronte degli incidenti sul lavoro che si registrano, io, come Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza Territoriale, non ho svolto nessun compito di controllo e tutela. La sensazione che provo, con le dovute proporzioni, è una sensazione di morte. Non esistono incidenti mortali sul lavoro: esistono omicidi preterintenzionali. Se dovesse succedere in un’azienda per la quale io avrei potuto e dovuto rappresentare i lavoratori sulla sicurezza, nella gerarchia delle responsabilità ci dovrebbero stare sia io, ma anche la mia organizzazione sindacale.

Non c’è bisogno di parlare di me. Tutti sanno chi sono stato nell’organizzazione. Ma se ancora c’è qualcuno che ha dei dubbi, basta parlare direttamente con i lavoratori che ho seguito nelle diverse vertenze.

Non voglio essere costretto a procedere con una vertenza contro l’organizzazione né contro altra diramazione dei servizi. Questa sorta di attesa statica, sistematicamente indicatami come un viatico per non lasciare traccia, è diventata per me un insopportabile tappo che impedisce di difendermi, come avrei potuto fare se avessi difeso un altro lavoratore. Voglio escludere qualsivoglia strada giudiziaria. Da sindacalista proverò a mettere alla luce tutte le contraddizioni che sono emerse nella procedura per il mio licenziamento.

Anche se, a primo acchito, mi verrebbe la voglia di occupare una Camera del Lavoro e far scendere Landini, non farò niente che possa danneggiare la CGIL nelle sue diverse diramazioni. Né creerò disagio alle attività. Non bloccherò nessun servizio. Chiudermi occupando la Camera del Lavoro di Soverato con Luigi Vitale è la prima cosa che ho scartato. Lascerò libera la mia fantasia, darò alla mia lotta la giusta visibilità. Se devo essere licenziato, ognuno si deve prendere le proprie responsabilità.

Non mi farò trattare come una vertenza giudiziaria, l’ennesima che l’organizzazione subisce e perde. Non mi farò dire che sono contro l’organizzazione. Ma una cosa è Giuseppe Di Vittorio e la CGIL, un’altra sono i dirigenti responsabili del mio licenziamento.

Tanto si doveva.

Giovanni Montesano