Al di qua del Pollino, la realtà per molti lavoratori calabresi è una battaglia quotidiana contro una precarietà che si trasforma in strumento di dominio. I padroni, in ogni settore, utilizzano il bisogno di lavoro come una clava per sottomettere, annichilire e privare di dignità chi ha poche alternative. Il silenzio e la paura diventano il pane quotidiano, alimentati dalla complicità di molti che, pur vedendo lo sfruttamento, restano a guardare.
L’inchiesta “Ergon,” condotta dalla Guardia di Finanza, ha portato alla luce l’ennesimo caso di sfruttamento sistematico. Paolo Paoletti, imprenditore alla guida di una catena di supermercati nella zona jonica, avrebbe creato un’organizzazione che sfrutta la vulnerabilità economica dei lavoratori, approfittando di un territorio segnato da un alto tasso di disoccupazione e dalla mancanza di opportunità. Il risultato? Dipendenti ridotti a “sudditi” senza diritti, costretti a restituire parte del salario e a lavorare in condizioni degradanti, il tutto sotto una sorveglianza invasiva per garantire il controllo assoluto.
In Calabria, per molti, lavorare onestamente è un lusso; alzare la testa e ribellarsi è un privilegio riservato a pochi. Ribellarsi, infatti, significa spesso ritrovarsi soli, abbandonati a lottare contro un sistema che lascia poche vie d’uscita.
Le strade sono limitate: subire in silenzio, andarsene altrove o, per i più fortunati, trovare una raccomandazione. C’è anche un’altra via, però, ed è quella di chi sceglie la disonestà, il compromesso, la bugia. Queste persone, prive di scrupoli, vedono nei lavoratori strumenti per mantenere le proprie rendite di posizione e privilegi, applicando senza rimorso la regola “vita mea, mors tua.”
Se questa regola è il caposaldo di alcuni padroni al di qua del Pollino e i suoi effetti ci indignano, senza però sorprenderci mai, perché ormai conosciamo la condizione del lavoro in Calabria, cosa dovremmo provare quando scopriamo che anche il segretario confederale della CGIL Area Vasta Centro, di nome Enzo Scalese, e non Paolo Paoletti, ha fatto di questa regola il suo costrutto di vita? Come potrebbero i lavoratori fidarsi di chi, all’interno dell’organizzazione sindacale, si comporta nello stesso modo, senza clamore mediatico, nascondendo i più meschini atteggiamenti con l’aiuto di devoti compagni a lui sodali?
L’inchiesta descrive un sistema in cui il controllo e la paura sono strumenti potenti. I dipendenti dei supermercati del Gruppo Paoletti erano costretti a straordinari massacranti, senza diritti e con pause ridotte al minimo. La precarietà lavorativa diventa così una leva per schiacciare ogni tentativo di ribellione, trasformando il lavoro in una trappola che intrappola i più deboli e alimenta un ciclo di sfruttamento senza fine.
In questo contesto, il vero nemico non è solo il singolo imprenditore che abusa del proprio potere, ma un sistema che tollera e alimenta questo tipo di pratiche. In Calabria, la speranza di vivere del proprio lavoro, con dignità e senza ricatti, appare sempre più come un’utopia. E finché la regola sarà quella del “vita mea, mors tua,” le possibilità di cambiamento resteranno un miraggio, riservato a pochi privilegiati o a chi è disposto a scendere a compromessi con la propria coscienza. E questo riguarda sia i tanti Paoletti che i tanti Scalese.
Come diceva San Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore.” Forse è questo il metro con cui dovremmo valutare le nostre azioni e le scelte che facciamo, per ricordare che ogni uomo ha il diritto di vivere e lavorare con dignità, senza paura.